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Draghi viene per restare e scongiurare il voto anticipato: dopo i 5 Stelle, ora la Lega rischia la normalizzazione europeista

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E così, Matteo Renzi è andato fino in fondo, ha completato ciò che aveva iniziato. Non si è accontentato di dimostrare l’indispensabilità di Italia Viva per la tenuta del Conte 2 e della legislatura. E, d’altra parte, i partner della ormai ex maggioranza non gli hanno complicato troppo la scelta, non rinunciando – stando ai retroscena – ad alcuno degli assetti del precedente Esecutivo, da Via XX Settembre alla Giustizia…

E ha quindi affondato la lama, ottenendo in un sol colpo di: far fuori Conte, rottamare la linea (e forse anche la segreteria) Zingaretti, disarticolare il centrodestra cui fino ad oggi i sondaggi attribuivano il 47-49 per cento dei consensi. Capolavoro sì, nell’annientare o mettere in difficoltà gli avversari, vedremo se anche nel risollevare il Paese e se stesso nei consensi. Una delle poche cose che avevamo già molto chiare nell’agosto 2019 era proprio questa: Renzi aveva fatto nascere il Conte 2 (tirando una sòla a Salvini e Zingaretti), Renzi ne avrebbe decretato la fine non appena si fossero create le condizioni. E diciamo che la totale incapacità del duo Conte-Gualtieri e di tutta la loro corte, ormai manifesta anche dalle parti di Bruxelles e Berlino, il ritorno al potere dei Democratici a Washington, hanno determinato l’allineamento decisivo per la spallata.

Che i governi possano essere fatti e disfatti da una forza politica del 2-3 per cento, questa è la croce (e per qualcuno la delizia) del sistema politico italiano, ma è un altro discorso.

Travolta la linea del Pd – alleanza strategica con i 5 Stelle con Conte punto d’equilibrio – si stanno coprendo di ridicolo tutti coloro che fino a ieri parlavano di crisi “incomprensibile”, accusando Renzi di “irresponsabilità”, mentre oggi esultano per l’arrivo di Draghi, che era proprio l’esito non disdegnato, se non preferito, da chi la crisi “incomprensibile” l’aveva aperta, ovvero Renzi.

Il Movimento 5 Stelle ha gettato al vento, nel 2019, l’occasione di tornare alle urne potendo impostare la sua campagna sul tradimento di Salvini. Ora, ha una sua logica che sia tentato dalla strada dell’opposizione e dalla richiesta del voto, gridando al tradimento di Renzi e del Pd. Ma è un Movimento diverso, normalizzato in senso europeista, dopo il voto per Ursula von der Leyen e il cambio di maggioranza nel 2019. Se da Fraccaro e Crimi, a caldo, sono arrivati dei niet a Draghi (il no di Grillo è un mistero), difficile che questa possa essere la posizione di Di Maio, che sembra aver completato la sua trasformazione in europeista e “moderato” (la sua alfanizzazione) e persino di Conte, che per sopravvivere politicamente non può certo trasformarsi in un Dibba. Il rischio spaccatura è quindi più che concreto.

Ma perché Draghi, che avrebbe potuto puntare direttamente al Quirinale a febbraio 2022, ha invece deciso di buttarsi nella mischia di un Parlamento logoro e instabile come un isotopo radioattivo, rischiando di bruciarsi? Difficile credere che abbia accettato l’incarico, sebbene con riserva, senza avere le dovute garanzie – non solo da Mattarella ma anche direttamente dalle forze politiche – di una maggioranza ampia disposta ad appoggiare il suo governo.

Di fronte a sé ha un percorso che potrebbe portarlo al Colle tra un anno, ma anche a schiantarsi prima del tempo.

Obtorto collo il presidente Mattarella lo ha chiamato, dopo aver tentato di tutto per salvare la sua creatura politica, consapevole evidentemente di dover comunque evitare il peggio: consegnare governo e Quirinale alle temutissime “destre” (al plurale suonano più cattive). Draghi non è la “cup of tea” del mondo di riferimento di Mattarella e della attuale leadership del Pd, quindi non deve sorprendere se l’auspicio di qualcuno è che Palazzo Chigi possa rivelarsi per lui una polpetta avvelenata invece di un trampolino di lancio verso il Colle più alto.

Ora la domanda è: ma cosa viene a fare esattamente Mario Draghi?

In linea teorica la posizione espressa ieri sera da Salvini ha una logica: “Se andiamo avanti per due anni, non si può. Se si va a votare, per esempio a giugno [ma anche a fine settembre, ndr], è evidente che non possono passare quattro o cinque mesi senza fare niente, questo tempo bisogna occuparlo facendo cose utili”.

Si tratta di una linea ragionevole. Questi mesi sarebbero più che sufficienti per superare tutti gli argomenti contro il voto anticipato elencati da Mattarella martedì sera: entro giugno, infatti, la campagna di vaccinazioni dovrebbe essere già ben avviata, il Recovery Plan approvato, i primi fondi erogati, e il rischio contagio votando a settembre molto ridotto.

Ma bisogna essere realistici: possibile che Draghi si scomodi per qualche mese, per portarci al voto entro fine estate? Possibile che ad una manciata di giorni dal semestre bianco, Mattarella sciolga le Camere per consegnare governo e Quirinale al centrodestra, esito che ha fatto di tutto per scongiurare negli ultimi tre anni? Perché ciò si verifichi, la Lega dovrebbe stringere un patto d’acciaio con Draghi stesso, che consista di fatto nel tirare una clamorosa sòla in primis al presidente della Repubblica: Draghi dovrebbe dimettersi in tempo perché Mattarella si trovi costretto a sciogliere le Camere a fine luglio e a indire elezioni al massimo per fine settembre, in cambio venendo eletto dal centrodestra al Quirinale a febbraio 2022 (cosa che può realizzarsi anche se resta a Palazzo Chigi fino alla scadenza di Mattarella).

Fantapolitica, quindi? Vedremo. Dalle sfide citate ieri dallo stesso Draghi, che sulle parole “fiducioso” e “unità” ha posto una certa enfasi e lanciato alle telecamere uno sguardo fulminante, si direbbe che l’orizzonte sia di minimo un anno: “Vincere la pandemia, completare [non avviare, ndr] la campagna vaccinale, offrire risposte ai problemi quotidiani dei cittadini, rilanciare il Paese”.

C’è forse anche un equivoco nei ragionamenti di queste ore. Se abbiamo compreso bene, Draghi è stato chiamato a presiedere un “governo del presidente”, non un “suo” governo tecnico o politico, quindi non sarebbe nemmeno nella sua disponibilità contrattare con la Lega un governo a scadenza certa, di fatto un governo elettorale. La sensazione è che ai partiti non verrà concessa molta voce in capitolo nemmeno sui ministri, forse su qualche sottosegretario, ma che comunque nella squadra Draghi troveremo molti nomi di area centrosinistra.

Vero è che, soprattutto se dovesse tenere il no dei 5 Stelle, senza i voti della Lega sarebbe molto difficile partire, quindi Salvini fa bene a farli pesare. E se il centrodestra dovesse restare unito, con gli avversari in questo momento sfilacciati, avrebbe la necessaria massa critica sia per condizionare la traiettoria del governo Draghi, sia per indirizzare verso altri esiti il corso degli eventi. Sempre che, forzatura per forzatura, non sia intenzione del presidente Mattarella mantenere in ogni caso in carica il governo Draghi fino alla scadenza del suo mandato, anche nell’ipotesi (ad oggi improbabile) che non ottenga, o gli venga in seguito tolta la fiducia. Ormai, non ci sorprendiamo più di nulla…

Insomma, l’incarico a Draghi non nasce per accompagnare il Paese a elezioni anticipate, ma per l’esatto opposto: per impedirle ad ogni costo ed arrivare ad eleggere con questo Parlamento il successore di Mattarella. Credere che possa diventare altro – un governo a scadenza prefissata – rischia di rivelarsi una pericolosa illusione sulla base della quale giocare le proprie carte.

Si sente ripetere da più parti che il sostegno a Draghi consentirebbe a Salvini e alla Lega di guadagnarsi la legittimazione europea. Questo sarebbe per la Lega il peggiore dei motivi per cui sostenerlo.

Perché per forza di cose, per essere “legittimante”, questo sostegno dovrebbe essere acritico, dovrebbe prescindere cioè dai tempi, dai nomi e dalle politiche del governo Draghi. Significherebbe il definitivo abbandono del cosiddetto “sovranismo”, di cui Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni resterebbero gli unici interpreti (sebbene non negheranno il loro voto a provvedimenti “nell’interesse nazionale”). Prima, nel 2019, la normalizzazione in senso europeista del Movimento 5 Stelle. Ora, 2021, la stessa normalizzazione della Lega, con l’appoggio a Draghi, un europeista, un federalista.

La tentazione è forte, anche perché negli scorsi mesi si è insinuata nella Lega l’idea di un deficit di “rispettabilità” da colmare perché vengano aperte le porte di Palazzo Chigi ad un premier leghista.

Draghi viene visto quindi come l’occasione da non perdere per accreditarsi con le capitali che contano e con l’establishment, estero e domestico. Una scelta legittima, ovviamente, ma dev’essere chiaro che andrebbe a contraddire tutto ciò che ha portato la Lega a superare il 30 per cento dei consensi alle elezioni europee del 2019 e ad essere quotata stabilmente intorno al 25 per cento dai sondaggi.

Ma è davvero un deficit di rispettabilità politica a impedire ad un centrodestra a guida Lega di governare, o piuttosto un gioco truccato oltre ogni decenza? E “rispettabilità” agli occhi di chi?

È quella che abbiamo definito la trappola della “svolta moderata”, basata su un’idea di “presentabilità” innestata a quanto pare con successo nella Lega dai suoi avversari, come nel film “Inception” di Christopher Nolan. Il problema è che il perimetro di ciò che viene ritenuto “rispettabile” viene tracciato dalla sinistra e dai celebranti del credo europeista. Con il passare degli anni quel perimetro si restringe sempre di più ed è sempre più lontano dal sentiment di gran parte dell’elettorato.

Quando un centrodestra vincente appare nel panorama politico, viene puntualmente bollato come impresentabile, estremista, pericoloso, incompatibile con le istituzioni democratiche e le coordinate di fondo del nostro Paese, in primis l’europeismo. Che succede? Che di fronte all’impraticabilità di campo nei “Palazzi”, settori sempre più ampi di quel centrodestra se ne convincono, come in “Inception”, appunto (solo che in questo caso le vittime non sono addormentate, in teoria).

Se in quel momento il centrodestra è al governo, come durante gli anni di Berlusconi, comincia a perdere la sua spinta propulsiva e a deludere le aspettative dei propri elettori, a scansare le sfide, preferendo durare a colpi di compromessi sempre più al ribasso. Addio “rivoluzione liberale”. Se è all’opposizione, com’è oggi, abbandona la strada che l’ha portato a consensi record nella speranza che l’establishment europeo e quello casalingo facciano cadere quella sorta di conventio ad excludendum nei suoi confronti.

Oggi spaventa il centrodestra di Salvini, mentre Berlusconi è ritenuto uno statista; ieri spaventava Berlusconi e gli statisti erano Fini, Casini… Berlusconi si definiva liberale, “moderato”, è sempre stato nel Ppe, non ha mai messo in discussione l’euro. Eppure, sappiamo com’è finita.

Ciò che si chiede oggi alla Lega per “legittimarsi” è in sostanza un atto di fede europeista, che avverrebbe sostenendo Draghi. “Immergersi nel governo istituzionale per archiviare la stagione dell’impresentabilità”, come scrive Cerasa.

La conventio ad excludendum, a quel punto, cadrà (almeno così assicurano i bari), ma il rischio è che non ce ne sarà più bisogno, perché nel frattempo potrebbe essere neutralizzata perdendo per strada gran parte della sua forza elettorale. E allora, con la rispettabilità non ci farà nulla, se non testimonianza.

Non ci uniamo al coro entusiastico e agli squilli di tromba che accompagnano l’arrivo di Mario Draghi.

Innanzitutto, perché la competenza economica e lo spessore anche politico di Draghi, rispetto a Conte, sebbene indiscutibili, non ci impediscono di guardare con preoccupazione alle ferite da molti anni inferte alla nostra democrazia da questo metodo di selezione dei premier e delle maggioranze.

Complici leggi elettorali sempre meno maggioritarie, complici le manovre di Palazzo, complice la partigianeria sempre più spudorata dei presidenti della Repubblica – che sembra debbano assicurare al Pd una posizione di governo e la casella del Quirinale anche con meno del 20 per cento dei voti – sono passati ben 13 anni dall’ultima volta in cui gli italiani si sono potuti scegliere il capo del governo. Da allora il presidente della Repubblica, non eletto direttamente, ha nominato una figura tecnica o politica in grado di trovare di volta in volta il sostegno di una maggioranza parlamentare, spesso raccogliticcia e solo numerica, sempre inconcludente. Una assoluta anomalia tra le democrazie avanzate. Il distacco tra principio di competenza e principio democratico sta raggiungendo i livelli di guardia.

Se ci avete fatto caso, nelle dichiarazioni di martedì sera il presidente Mattarella ha impiegato circa 6 minuti dei complessivi 6 minuti e 40 secondi per spiegare perché non si può tornare al voto. Argomenti che gli devono essere sembrati così deboli da dover aggiungere, come stoccata finale, un minaccioso “in altri Paesi in cui si è votato si è verificato un grave aumento dei contagi”. Affermazione che ancora stiamo aspettando venga verificata dai solerti fact-checker con i corrispondenti dati statistici e scientifici.

Le beatificazione preventiva di Draghi in queste ore (addirittura, “se salta Draghi, salta il Paese”) ci dà un assaggio di ciò che vivremo nei prossimi mesi: una cappa di conformismo governativo a livello politico, mediatico e culturale ancor più asfissiante di quella che abbiamo vissuto negli ultimi mesi di emergenza sanitaria.

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