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Gli Accordi di Abramo mettono la leadership palestinese, e la politica di Obama, davanti al loro fallimento

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Nei decenni i palestinesi hanno sistematicamente sbagliato alleanze e oggi chi resta al loro fianco? Le potenze islamiste e revisioniste Turchia e Iran, ovvero le due principali ragioni per cui gli arabi moderati li hanno mollati, per normalizzare i loro rapporti con Israele. Ciliegina sulla torta: la fallimentare politica obamiana di sostegno all’islamismo politico sciita e sunnita, che ha contribuito alla definizione della nuova geopolitica mediorientale. Biden dovrebbe fare attenzione a non ripartire da quella

Il 5 ottobre scorso una intervista importante ha fatto scalpore in Medio Oriente: si tratta di quella concessa ad al-Arabiya dal principe saudita Bandar bin-Sultan al Saud, già ambasciatore saudita negli Stati Uniti ed ex capo dell’intelligence di Riad.

Nella sua intervista, il rappresentante saudita ha attaccato duramente i palestinesi, bollando come inaccettabili le loro critiche ai Paesi arabi che hanno deciso di normalizzare le relazioni diplomatiche con Israele. Il principe Bandar bin-Sultan non si è limitato a questa critica puntuale, ma ha di fatto squalificato l’intera strategia impostata negli anni dalla leadership palestinese. Per Bandar bin-Sultan, infatti, quella palestinese è una causa portata avanti da “avvocati” che hanno completamente fallito la loro missione. Un fallimento causato dalle alleanze costantemente sbagliate che i palestinesi hanno scelto – a cominciare da quella del Mufti di Gerusalemme con Adolf Hitler e la sua adesione alla soluzione finale nazista. Per continuare poi con l’alleanza con Saddam Hussein, contro le monarchie sunnite, durante la Guerra del Golfo (Saddam lanciò anche dei missili contro Riad).

L’intervista del principe saudita conferma quello che ormai è noto a chi guarda alla questione palestinese fuori dai soliti schemi ideologici. Ovvero che il principale problema della leadership palestinese ha un nome ben preciso: si chiama narrazione. L’idea che la questione palestinese sia ancora aperta perché “Israele non vuole la pace” è infatti un leit motiv per mezzo del quale la dirigenza palestinese si lava costantemente la coscienza, senza affrontare il fallimento storico che si cela dietro i suoi slogan.

Quando la questione palestinese è sorta, ricordiamolo, era pienamente inserita nel contesto arabo e priva dell’obiettivo di fare della regione uno Stato indipendente dagli altri Paesi arabi. Per dirla brutalmente, se Israele non fosse mai nato, oggi non avremmo mai sentito parlare di uno Stato palestinese indipendente, ma piuttosto di un territorio che probabilmente sarebbe stato spartito tra i diversi Paesi arabi della regione. Le cose sono cambiate solo dopo il 1967, quando i palestinesi hanno iniziato ad accorgersi che la cosiddetta solidarietà araba era fragile e non disinteressata, e che lo stesso panarabismo aveva iniziato il suo inesorabile declino, in favore di un’altra degenerazione politica: l’islamismo.

Per questo, per evitare di fallire nel prossimo futuro, i palestinesi dovrebbero iniziare a scardinare la loro stessa narrazione. Il primo punto da scardinare, è quello che li vede eredi di abitanti che vivevano nella regione da millenni e che per questo detengono un diritto storico unico sulla regione. Niente di più falso. I palestinesi sono eredi di migrazioni regionali (soprattutto da Paesi come l’Egitto e l’odierna Arabia Saudita). Una verità riconosciuta anni fa persino dal ministro dell’interno di Hamas Fathi Hammad, quando disse che “i palestinesi sono un mito: in realtà essi sono solo per metà egiziani e per metà sauditi”.

Secondo punto, ancora più importante, la questione nazionale palestinese è principalmente il risultato dell’intervento occidentale in Medio Oriente. Senza questo intervento, non solo Israele non sarebbe nato, ma neanche l’idea stessa di uno Stato palestinese sarebbe venuta in mente a nessuno. Quell’idea, infatti, è semplicemente il frutto del fallimento del negoziato tra sionisti e arabi alleati degli inglesi – ovvero gli Hashemiti della Mecca – che in cambio di un grande Stato arabo avevano accettato la Dichiarazione di Balfour e la nascita di un focolaio nazionale ebraico in Palestina. Quando il grande Stato arabo fallì, gli inglesi – rispettando anche i loro accordi con i francesi del 1916 – giocarono con i confini regionali, inviando l’emiro Faisal in Iraq e suo fratello Abdullah in Transgiordania (attuale Giordania, territorio sorto proprio su una parte destinata ai sionisti). È solo da quel momento che gli occidentali, non gli arabi e nemmeno i palestinesi, iniziarono a pensare di spartire la regione palestinese in due parti, al fine di risolvere le tensioni che c’erano costantemente tra ebrei e arabi (la prima importante proposta di spartizione fu quella della Commissione Peel del 1937, accettata dai sionisti e rifiutata dagli arabi). Per gli arabi/palestinesi però il solo obiettivo restava quello della jihad per ributtare gli ebrei in mare. Per ottenere questo risultato, come ricordato dal principe Bandar bin-Sultan al Saud, non solo il Muftì palestinese Amin al Husseini si alleò con Hitler, ma sostenne con ogni forza le forze dell’Asse e il progetto dell’Olocausto.

Finita la solidarietà panaraba nasseriana – con l’avvento al potere in Egitto di Sadat – i palestinesi iniziarono a ricevere la solidarietà islamista sciita del regime iraniano, insieme ai cocci che restavano del “panarabismo”, ovvero i regimi iracheno e siriano, governati dal Baath in stile nazional-socialista. Anche in questo caso, i palestinesi si illusero di poter vincere la partita annientando totalmente il nemico “sionista”. Fallirono miseramente, sbagliando ancora nella scelta dei loro alleati e iniziando il drammatico processo di frattura che li porterà ad inimicarsi buona parte dei Paesi del Golfo Arabico (Arafat si schierò con Saddam durante la Guerra Iraq-Kuwait).

Un piccolo spazio di pace si aprì con Oslo, come risultato diretto della fine della Guerra Fredda. Con una mano Arafat imbracciò una foglia di ulivo e con l’altra il mitra. Alla fine, nella guerra tra le fazioni palestinesi, prevalse il mitra. E mentre il terrorismo faceva saltare in aria gli autobus israeliani, un altro Paese arabo firmava la pace con Israele: era il 1994 e quel Paese era la Giordania, non a caso guidata da una monarchia, quella di Hussein, erede diretto dello Sceriffo Hussein della Mecca che combatté contro l’Impero Ottomano nella rivolta araba del 1916 e padre di Faisal, colui che nel 1919 benedì il sionismo.

Con un salto lungo, arriviamo infine ad oggi: al nuovo rifiuto palestinese di sostenere gli accordi tra Israele, Emirati e Bahrain. Gli Accordi di Abramo che hanno ricevuto la benedizione saudita – in questo i wahaabiti sembrano quasi essersi sostituiti per pragmatismo agli Hussein della Mecca, da loro cacciati nel 1932 – e che presto potrebbero allargarsi a Oman, Kuwait, Sudan e forse Marocco.

Chi resta oggi al fianco dei palestinesi? La Turchia neo-ottomana di Erdogan, sostenitore della Fratellanza Musulmana (alleata del Qatar, isolato nel Golfo) e l’Iran, anch’esso islamista, anche se sciita, che vuole cancellare Israele dalle mappe, così come i palestinesi volevano ributtare gli ebrei in mare… Cosa ne verrà ai palestinesi da questo sostegno? Nulla, se non l’ennesimo fallimento. La Turchia e l’Iran sono le due principali ragioni per cui gli arabi moderati hanno mollato i palestinesi, per allearsi con Israele. Israele, con la sua resistenza ai decennali tentativi arabi di spazzarlo via, è riuscito a costringere le monarchie arabe sunnite moderate a riflettere, rendendo loro chiaro che lo Stato ebraico è parte integrante della regione. Ciliegina sulla torta è arrivata la fallimentare politica obamiana di sostegno all’islamismo politico sciita e sunnita, che ha contribuito maggiormente alla definizione della nuova geopolitica mediorientale.

Concludendo, i palestinesi si trovano ora davanti ad un bivio: possono pensare in cuor loro di riuscire ancora a ributtare gli ebrei in mare – con l’aiuto di Ankara e Teheran – o capire che a questa narrazione non ci credono nemmeno Erdogan e Khamenei. Oppure, i palestinesi possono scegliere di autoscardinare la loro stessa (falsa) narrazione e abbracciare la realpolitik, provando a salvare il salvabile. La differenza tra le due scelte è solo temporale: se i palestinesi scardineranno da soli la loro narrazione, forse, dopo numerosi rifiuti, potranno portare a casa qualche risultato. Al contrario, se sarà ancora la storia a decidere per loro, resterà ben poco da salvare. Non si sa quando, ma prima o poi Erdogan e Khamenei passeranno nei ricordi della storia. E se anche i loro successori saranno peggiori per Israele, passeranno anche quelli. Alla fine della partita, come sempre capita, resteranno gli Stati: Turchia e Iran, due Paesi etnicamente non arabi, che storicamente e soprattutto geopoliticamente non hanno alcun motivo per portare avanti una inutile e dannosa ostilità verso il mondo ebraico e Israele.