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Perché a Greta preferiamo Joshua Wong: l’imbarazzante paragone tra i rivoluzionari alla moda e chi lotta per la libertà

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Se capitate ad Hong Kong, ci metterete un bel po’ di impegno per raggiungere il numero 3 di Austin Avenue a Kowloon dove, al quinto piano, si trova l’unico museo su suolo cinese dedicato alla strage di Tienanmen. O meglio, si trovava, dato che nell’atrio del palazzo un foglio avverte i visitatori che il museo è stato rimosso nel 2016. La versione ufficiale parla di “problemi condominiali”.

La cinesizzazione di Hong Kong procede senza sosta ma non senza ostacoli: Pechino non aveva fatto i conti con migliaia di ragazzi coraggiosi e tenaci aggregati nel “Movimento degli ombrelli gialli”. Tutto iniziò quando un ragazzo di 14 anni, di nome Joshua Wong (classe 1996), prese un tavolino, stampò dei volantini ed iniziò a darli ai passanti, per protesta contro il programma cinese di istruzione che mirava – de facto – a riscrivere la storia della sua terra, a partire dal lavaggio del cervello dei ragazzi più giovani. Il suo movimento “Scholarism” divenne presto un partito, “Demosisto“, vera spina nel fianco per la Cina dal 2014, quando le prime proteste di piazza vennero represse a suon di violenze e arresti.

Joshua Wong ha già provato sulla sua pelle le galere cinesi ed è ancora in prima linea per chiedere più democrazia, una riforma elettorale rispettosa della volontà popolare e una stampa libera. Guardate la sua storia nello splendido documentario di Netflix (Teenager VS Superpower). Una lotta tra Davide e Golia, senza il supporto di nessun politico di peso, tantomeno di Rita Fan, prima donna presidente del Consiglio Legislativo e palesemente “In quota Pechino”. Un’altra nomina finalizzata a rendere insopportabili quei 30 anni che separano Hong Kong dal tragico ritorno alla Cina.

Se in oriente troviamo ragazzi che ogni giorno rischiano la vita per la libertà della propria terra, nell’indifferenza dei media di tutto il mondo, cosa fanno i loro coetanei europei? In Europa abbiamo molti problemi a cui, grazie al cielo, non si aggiunge la mancanza di libertà. Se la contemporaneità non trova né veri nemici contro cui battersi, né ideali per cui spendersi, ecco che l’antagonista dei più giovani diventa la noia; combatterla nell’agio è tuttavia attività stancante e per motivare uno sforzo serve un problema. E se non c’è? Si inventa, naturalmente. Il Climate Change è una issue perfetta: semplice, alla moda, pulita quanto basta, trasversale, corretta. Non importa se la comunità scientifica è divisa sulle cause antropiche del riscaldamento globale, tanto basta per fare passare il messaggio che la colpa è dell’uomo (malvagio, inquinatore, etc).

Un ragionamento non nuovo che strizza l’occhio alle vetuste teorie della denatalità consapevole e della decrescita felice, un messaggio sintetizzato in quel vecchio monumento hippy che va sotto il nome di Georgia Guidestones, la Stonehenge americana che ha inciso nella pietra come prima linea guida: “Mantieni l’Umanità sotto 500.000.000 in perenne equilibrio con la natura”. I rivoluzionari europei che scendono in piazza il venerdì (prima regola degli scioperi a scuola: sempre di venerdì così da fare il weekend lungo) sono guidati dalla piccola Greta Thunberg (classe 2003, affetta dalla Sindrome di Asperger, un disturbo del neurosviluppo). Treccine bionde, visino angelico e arroganza da vendere tanto da rifiutarsi persino di andare al Parlamento europeo pur di spingere gli studenti di mezza Europa a marinare la scuola in occasione del suo #FridaysForFuture.

La finzione della rivoluzione del venerdì mattina è perfetta per la generazione snowflake: capaci di lottare solo se la lotta non prevede rischi, incapaci di schierarsi su problemi veri, campioni nella solita vecchia ginnastica d’obbedienza. Il paragone generazionale tra gli adolescenti occidentali con il codazzo mediatico che scendono in piazza per i pinguini e i ragazzi orientali che rischiano ogni giorno la propria vita per la libertà (nell’indifferenza del mondo) è semplicemente imbarazzante.

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