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Il conto dell’Euro in arrivo, Germania al bivio: condividere il debito o disinnescare la moneta unica

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Se una moneta comune amplifica di per sé le divergenze, pacchetti fiscali anti-crisi di efficacia molto diversa ne rendono pressoché impossibile il funzionamento. Il conto dell’Euro è ormai incombente, e sempre meno occulto è il conflitto tra Francia e Germania sulla redistribuzione delle perdite. Impossibile prevedere il futuro, ma una cosa è certa: lungi dall’essere un’area di cooperazione reciprocamente vantaggiosa, il costrutto europeo è un dramma a somma zero

Sotto un certo aspetto è piuttosto equa l’Unione europea: dopo anni di intrusione nella politica dei paesi periferici – culminata nella rimozione di leader eletti e/o l’installazione di regimi fantoccio – e l’imposizione di una spirale di depressione, deflazione e default che ha devastato famiglie, imprese, banche e conti pubblici senza migliorare granché la posizione competitiva di quei paesi (l’unica cosa che conti), ambisce ora, con il consenso di parte della sua élite, a metter piede in Germania, destituire la Corte costituzionale federale della sua giurisdizione nelle questioni europee, e intrappolare il contribuente tedesco in trasferimenti fiscali destinati, nelle intenzioni dei sostenitori del progetto europeo, a far impallidire quelli resisi necessari per l’assorbimento della ex-DDR.

I sondaggi al momento non ne presentano traccia, ma è plausibile aspettarsi che un crollo nei consumi tedeschi (per finanziare i consumi nella periferia) o l’inflazione (inevitabilmente prodotta da una Banca Centrale Europea in condizioni di fiscal dominance) determinerebbero instabilità economica, finanziaria, sociale e politica, che in un contesto bloccato quale quello tedesco troverebbe sfogo nell’ascesa di partiti radicali e gruppi extra-parlamentari ben più preoccupanti della rispettabile hayekiana Alice Weidel.

“Elevati rischi di peggioramento”, scrivevamo appena sei mesi fa su Atlantico Quotidiano, riecheggiando deferenti l’allarme del Fondo monetario internazionale; e, per mesi, abbiamo ritenuto non vi fosse granché da aggiungere: che il conto dell’Euro fosse sempre più incombente, e sempre meno occulto il conflitto tra Francia e Germania sulla redistribuzione delle perdite, era già in quei paragrafi illustrato ottimamente. Certo, chi vi scrive non aveva alcun sentore dell’epocale pandemia poi sopraggiunta; ma, in quella farsa che Ashoka Mody ha magnanimamente preferito definire “eurotragedia”, la pandemia non è che un acceleratore: l’economia italiana ed europea, particolarmente sensibile al commercio internazionale, era già prossima alla recessione, il debito pubblico italiano – perfettamente gestibile in un paese avanzato, purché indipendente e con una visione mainstream del ruolo della banca centrale – era già di dubbia sostenibilità, in quel circo noto come “unione economica e monetaria”.

La pandemia avvicina l’epilogo, e con esso la scelta tra disinnesco dell’unione monetaria o mutualizzazione del debito e trasferimenti fiscali. Sappiamo infatti – perché la teoria economica è sorprendemente concorde nel sostenerlo – che un’area valutaria tende a sgretolarsi spontaneamente per via della crescente eterogeneità tra i suoi membri, dovuta a due meccanismi: nell’uno, la scomparsa del rischio valutario conduce a specializzazioni produttive differenti, e quindi a divergenze nei redditi pro capite; nell’altro, un membro con crescita potenziale inferiore alla media dell’area valutaria si ritrova con tassi di interesse troppo alti per la propria economia, il che indebolisce gli investimenti deprimendo ulteriormente la crescita potenziale. In assenza di sufficiente mobilità dei capitali – in Germania si preferisce prestare il proprio surplus di risparmio in America, in Italia abbondano proposte di autarchia finanziaria – tale eterogeneità va dunque corretta. Nel lungo termine, l’Ue tenta di farlo con i tristemente famosi progetti di “armonizzazione”, vale a dire forzando uniformità in tutte le attività in grado di influenzare il tasso di redditività del capitale (imposizione fiscale, redistribuzione, spesa pubblica, istruzione, politica industriale: proteggere la moneta unica fornisce un pretesto per intromettersi ovunque); ma, trattandosi di un’impresa già ardua tra regioni di stati nazionali relativamente omogenei, e quindi titanica nel variegato continente europeo, nel breve termine si rende necessario rimediare a tale eterogeneità con una politica monetaria particolarmente espansiva, nel medio con l’introduzione di un bilancio comune e trasferimenti fiscali.

Che fosse sufficiente l’azione della Banca centrale europea, è quanto si auguravano le fazioni particolarmente europeiste dell’establishment politico nel blocco tedesco: lasciandola limitare i differenziali tra tassi di interesse, ed acquistare titoli di stato senza curarsi troppo della composizione del proprio portfolio, sarebbe (stato?) possibile con la connivenza della Corte di “Giustizia” Europea mutualizzare i rischi ed instaurare de facto l’unione fiscale vietata dai trattati in segreto, senza che i governi del blocco tedesco debbano apertamente farsi carico della responsabilità politica delle proprie scelte. Contro tale piano, la Corte costituzionale federale, con il timido appoggio della Bundesbank, persevera nella propria guerrilla, i cui esiti sono imprevedibili: “fiscal dominance” o indipendenza della politica monetaria? Rimandiamo alle note di Musso, incerto, e di Alessandro Fugnoli, che si azzarda invece a pronosticare un ritorno dell’egemonia culturale tedesca; noialtri ci riserviamo di scriverne dettagliatamente in futuro.

Per il momento, ci limitiamo ad osservare che l’azione della Bce ha creato spazi fiscali per l’Italia durante l’emergenza pandemica, ma che essa sarebbe accusata di finanziamento monetario se continuasse ad accumulare sproporzionatamente i titoli di stato di particolari paesi per contenere gli spread dinanzi a timori di insolvenza giustificati da una ripresa anemica. Ma che altro bisogna aspettarsi, se si tiene conto della rilevanza del turismo nell’economia italiana, del peso della piccola e media impresa, e dei danni che la pandemia ha inflitto alla locomotiva del Paese? In condizioni simili, la sospensione delle regole di bilancio era un atto dovuto, dacché è estremamente plausibile che il rapporto debito/Pil aumenti maggiormente proprio nei paesi che, per i relativamente elevati tassi di interesse e il preoccupante livello del debito preesistente, sono incapaci di reagire allo shock pandemico con un adeguato pacchetto fiscale, e si ritroveranno con fiacche prospettive di crescita. Si potrebbe persino, con una certa malizia, insinuare che la decisione sia stata assunta primariamente per assecondare il tradizionale imperialismo economico tedesco: la Germania sta in effetti servendosi del proprio bilancio, e del rating AAA, per sfoderare un programma di stimolo fiscale da 130 miliardi, preceduto in marzo da un pacchetto di aiuti da 750. Particolarmente spegiudicato l’uso di KFW, arma di finanza di stato del corporativismo tedesco, dotata per l’occasione di potere d’intervento illimitato a sostegno delle imprese tedesche. Se il pacchetto è stato definito da Olaf Scholz un “bazooka”, ci pare meriti l’appellativo molto più della “potenza di fuoco” contiana. Consentirà al sistema economico tedesco di superare relativamente intatto l’emergenza, e profittare delle traversie in cui verseranno le aziende dei paesi periferici per consolidare la propria posizione all’interno del mercato comune, seguendo lo schema già replicato di frequente nell’ultimo decennio.

Quasi per schermarsi dalle ingiurie francesi, è ora sul tavolo il “Next Generation EU”, il fondo per la ripresa. Ma l’erogazione delle risorse è legata al quadro finanziario pluriennale, ergo i fondi saranno disponibili dal 2021, anno in cui all’Italia arriverebbero però solo 12 miliardi, pochi ed in ritardo. Si ha quasi l’impressione, insomma, che abbia il fine di rafforzare la reputazione internazionale della politica e diplomazia tedesche, nonché l’egemonia del suo sistema economico; e, parimenti, che vi siano in Germania anche sconfitti, in primo luogo Bundesbank e contribuenti.

Anche degli storici accordi ed equilibri alla base del sistema tedesco ci riserviamo di trattare in futuro. Per il momento osserviamo che sì, è tutto da scrivere il futuro del “Next Generation EU”, dal nome tra l’altro particolarmente velleitario; allo stesso modo, transitoria potrebbe essere la posizione di debolezza della Bundesbank, che potrebbe forse neutralizzare il programma di acquisto pandemico PEPP prima che il blocco latino a guida francese ne faccia uno strumento ordinario. Insomma, il pendolo potrebbe tornare ad oscillare nella direzione di un’Europa tedesca: è impossibile prevedere con sicurezza il futuro, quel che è certo è che, lungi dall’essere un’area di cooperazione reciprocamente vantaggiosa, il costrutto europeo è un dramma a somma zero in cui la mera sopravvivenza di un gruppo è possibile solo temporaneamente, ed a patto che altri membri soccombano.

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