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Il coraggio di una riforma fiscale che rimetta al centro imprese e lavoro per uscire dalla crisi da Covid-19

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo intervento del professor Antonio Borghetti

Da più fonti provengono spunti per agevolare la fuoriuscita del sistema economico italiano dalla crisi finanziaria ed economica ingenerata dalla pandemia di Covid-19. Sul fronte italiano, stante la forte pressione fiscale che incide principalmente sul lavoro – dipendente o autonomo – e sul reddito d’impresa, la sensibilità dei soggetti passivi Irpef ed Ires potrebbe essere sfruttata dal legislatore per agevolare la ripresa economica.

L’attuale sistema fiscale va di fatto a gravare in modo più pesante sulle categorie reddituali che, a contrariis, sarebbero le più meritevoli di tutela: quelli che promanano dal lavoro. Da qui, i legislatori che si sono via via succeduti nel tempo pare si siano rassegnati a tale status quo ritenendo sufficiente l’inserimento di “incentivi spot” caratterizzati molto spesso da un’instabilità giuridica rilevante. Pensiamo alle detrazioni fiscali per il risparmio energetico e al recupero del patrimonio edilizio, alle leggi di rivalutazione dei beni di impresa o delle partecipazioni societarie, all’Aiuto alla crescita economica (ACE), ai super ed iper ammortamenti. Sono tutte misure meritorie ma volte più a mitigare parzialmente un sistema fiscale iniquo, che penalizza i redditi promananti dal lavoro ed agevola i passive income (pensiamo alla cedolare secca sulle locazioni, alle imposte proporzionali sui capital gain).

Così non va e forse l’evento pandemico può essere l’occasione per rimettere al centro il lavoro ed agevolarlo, anche dal punto di vista fiscale in modo che il maggior reddito netto, nelle tasche dei lavoratori dipendenti, autonomi e delle imprese, si traduca poi in maggiori consumi e investimenti, alimentando un circolo virtuoso che consenta, nel breve, una forte ripresa del sistema Italia, che dovrà essere trainata da un incremento dei livelli occupazionali. Tale affermazione si espone alla critica di chi – pur sulla scorta di solide basi teoriche – sostiene che tale maggior reddito, lasciato nelle mani dei privati, verrebbe destinato al risparmio e non ai consumi: non vi è prova reale, e se anche vi fosse va detto che anche il risparmio privato genera lavoro (negli intermediari finanziari) e materia imponibile (sui capital gain). Parlo di una drastica e sensibile riduzione delle aliquote Irpef ed Ires, accompagnata da altrettante forti riduzioni della spesa pubblica.

Sarebbe un atto coraggioso – specie per le attuali condizioni delle casse pubbliche – e rispettoso per i lavoratori, sarebbe una misura incentivante “a regime”, che consentirebbe anche di mettere finalmente a terra l’agognata semplificazione del sistema tributario, dove spesso il costo per determinare una agevolazione è superiore all’agevolazione medesima. Serve uno sforzo, ma la storia italiana dimostra che è nelle situazioni più critiche che sappiamo dare il meglio.

L’Italia era una Repubblica democratica fondata sul lavoro ed è per questo che è riuscita a rialzarsi con vigore dopo il secondo Dopoguerra.

Ora dobbiamo con umiltà ammettere che, per svariati motivi, abbiamo disdettato il principio costituzionale e con forza dobbiamo esigere che i nostri rappresentanti ci consentano di tornare a coniugare al tempo presente il verbo dell’articolo 1 della Carta costituzionale.

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