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Il vero embargo a Cuba è quello della dittatura: l’ambiguità di Biden e la cattiva coscienza della sinistra europea

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Sono bastate due righe, un lancio d’agenzia come tanti, destinato all’oblio istantaneo, a smontare decenni di retorica terzomondista, Manifesti, Gianni Minà, barbudos, pueblos unidos que jamás serán vencidos, Sante Clare, rivoluzionari del sabato sera. Queste due righe: “Il governo cubano autorizzerà temporaneamente a partire da lunedì prossimo la libera importazione di alimenti, medicine e prodotti di igiene personale, senza pagamento di imposte doganali o limiti di quantità”. Ma come, non era l’embargo yankee, anzi il bloqueo (che vittimizza di più) a impedire l’arrivo a Cuba dei generi di prima necessità? No, era il regime che restringe(va) per puro calcolo politico l’importazione di prodotti essenziali per la popolazione, in perfetta coerenza con la logica pauperista con cui la Revolución infinita si mantiene al potere da sessantadue anni. Una strategia totalitaria volta alla sottomissione dell’individuo attraverso il ricatto del minimo vitale, una formula perversa in base alla quale il cittadino cubano (in realtà schiavo del comunismo tropicale e della famiglia Castro) scampa alla miseria assoluta ma viene mantenuto in uno stato di povertà permanente dal quale non può uscire.

Questo stato di necessità è in se stesso una forma di controllo sociale, in quanto impedisce ai cubani di convertirsi in soggetti politici, essendo legati a doppio filo al ricatto economico che il Partito-Stato esercita su di loro e sulle loro famiglie. Se occupi la tua giornata cercando di procurarti il cibo, tra code, beni scarsi e tessere di razionamento, non puoi fare politica né mettere in discussione il sistema dal quale dipendi come un animale in gabbia. Le proteste dell’11 luglio rappresentano prima di tutto la rivolta di parte della popolazione contro questo circolo vizioso che la dittatura ha usato per perpetuarsi. Rotto il meccanismo, la macchina autoritaria può continuare a funzionare ancora per qualche tempo ma prima o poi diventerà solo una carcassa da rottamare.

La misura economica che resterà in vigore fino al 31 dicembre, introdotta sotto la pressione della protesta popolare, potrebbe produrre conseguenze più profonde di quelle che le stesse autorità cubane sono disposte ad accettare. Innanzitutto, perché il Partito Comunista ammette in questo modo di non essere in grado di garantire l’offerta di alimenti e medicinali alla popolazione, fatto di per sé evidente ma mai riconosciuto ufficialmente. In secondo luogo perché – nonostante i comunicati governativi parlino di “uso non commerciale” – l’importazione di generi di prima necessità verosimilmente non si limiterà al consumo personale o famigliare ma darà vita a una forma di commercio privato al dettaglio che finora era affidato solo al mercato nero. A partire da lunedì chi rientrerà a Cuba dai Paesi vicini potrà portare con sé quantità illimitate di prodotti che, salvo nuove restrizioni, almeno in parte rivenderà, ricavandone un beneficio personale. Può darsi che la realtà freni ancora una volta le aspettative e che lo Stato trovi il modo di appropriarsi delle eccedenze ma, in teoria, questa decisione introduce un elemento trasformatore in un sistema economico sclerotizzato e, di conseguenza, un fattore di rischio per la tenuta del regime comunista. La traiettoria del socialismo reale insegna che anche le più piccole crepe nel muro possono portare al crollo dell’intero edificio. Staremo a vedere.

E mentre la cupola al potere risponde alle manifestazioni spontanee obbligando studenti e funzionari a partecipare a un “atto di riaffermazione rivoluzionaria” nel centro della capitale, in sede internazionale continua il penoso balletto intorno al cadavere dell’isola. L’Onu, nella persona della socialista Michelle Bachelet, ci ha messo cinque giorni per chiedere conto al regime di “numerosi” desaparecidos, detenuti di cui si sono perse le tracce dal giorno delle manifestazioni. Le cifre che circolano oscillano tra i 180 e i 500, spesso caricati in piena notte sui furgoni delle famigerate Brigate di risposta rapida. Tra di loro giornalisti, artisti e attivisti, come José Daniel Ferrer, leader dell’Unione Patriottica di Cuba, un cartello di sigle dissidenti organizzatesi al margine della politica ufficiale e soggette alla costante persecuzione del regime. Ferrer, già in carcere dal 2003 al 2011, e poi ripetutamente riarrestato, è stato prelevato l’11 luglio mentre si recava insieme al figlio a una manifestazione a Santiago de Cuba. Altro nome illustre quello di Luís Manuel Otero Alcántara, uno degli esponenti principali del Movimiento San Isidro. In totale le detenzioni sarebbero state oltre 5 mila, secondo fonti indipendenti che lavorano in clandestinità schivando le costanti interruzioni della rete informatica.

Proprio sul ripristino di Internet si è pronunciato il presidente Biden in conferenza stampa giovedì scorso: dopo aver definito Cuba “uno Stato fallito”, ha fatto sapere che gli Stati Uniti stanno lavorando per il ristabilimento delle comunicazioni nell’isola, senza peraltro specificare tempi e modalità. I Repubblicani, tra cui spicca l’attività del senatore della Florida Marco Rubio, stanno spingendo per l’approvazione rapida di misure che permettano l’uso di tecnologia americana per sbloccare le applicazioni che il regime mantiene oscurate e per garantire dall’esterno una sorta di ombrello wi-fi agli utenti cubani. Uno scenario comunque piuttosto complicato da attuare, che probabilmente la Casa Bianca sta utilizzando soprattutto come strumento di pressione nei confronti de L’Avana.

In generale l’atteggiamento dell’amministrazione Biden è stato piuttosto prudente in questi giorni, a tratti ambiguo. Hanno suscitato una certa sorpresa le dichiarazioni di Alejandro Mayorkas, responsabile del dipartimento di Homeland Security (sicurezza nazionale), che ha invitato esplicitamente cubani e haitiani a “non cercare di entrare negli Stati Uniti via mare”. Dichiarazioni che in epoca trumpiana la Cnn avrebbe probabilmente mandato in onda in loop durante giornate intere, di cui si possono dare letture diverse ma certo difficilmente catalogabili sotto l’etichetta della solidarietà al popolo cubano. La politica migratoria è da decenni uno dei punti di frizione più caldi nelle relazioni bilaterali, ed è stata usata spesso dallo stesso governo de L’Avana come arma di politica interna, fin dall’esodo massivo del Mariel (1980), quando insieme a dissidenti, oppositori, omosessuali, elementi “contro-rivoluzionari”, arrivarono in territorio nordamericano anche migliaia di criminali comuni di cui i comunisti decisero di disfarsi.

Se una cosa Biden sembra aver imparato dalle esperienze passate è che il disgelo perseguito da Obama non è servito a migliorare la situazione politica dell’isola, anzi ha esacerbato la stretta del regime. Si deve certamente all’ex presidente lo sbarco della tecnologia e delle infrastrutture informatiche che hanno permesso lo sviluppo della rete 3G con cui i cubani oggi possono almeno far passare messaggi e video, ma l’abolizione del permesso di residenza per i balseros e la visita ufficiale del 2016 con tanto di foto sotto l’immagine del Che e partita di baseball con Raúl Castro sono ancora oggi punti estremamente controversi dell’eredità politica obamiana. Tanto è vero che Biden ha ribadito che non vi sarà nessuna revisione delle restrizioni in essere finché Washington non abbia la sicurezza che gli aiuti economici dei cubani americani arrivino effettivamente alle famiglie senza finire nelle casse del regime.

L’Europa, come sempre, non pervenuta. Il capo della diplomazia di Bruxelles, l’ineffabile Borrell le cui simpatie filo-castriste sono note, non ha trovato di meglio che incolpare Trump del deterioramento delle condizioni di vita dei cubani. Come sempre nel suo caso, un bel tacer non fu mai scritto. Sulla Spagna, il Paese europeo che per ragioni storiche e sentimentali potrebbe esercitare un’influenza decisiva sul processo di democratizzazione, meglio stendere un velo pietoso. Nella coalizione di governo social-populista non sono ancora riusciti a mettersi d’accordo nemmeno sulla definizione della tirannia castrista: il D-word è vietato da Podemos e i socialisti di Sánchez, così affezionati alle etichette quando si tratta di applicarle all’opposizione parlamentare, dimostrano con la loro ostentata ambiguità di essere democratici per convenienza e non per convinzione.

Il grottesco teatro spagnolo è un microcosmo delle contraddizioni e dell’ipocrisia della sinistra europea e latinoamericana. Da una parte i comunisti superstiti o riciclati, sodali e complici nelle dichiarazioni o nei fatti del regime cubano, dall’altra (ma in sostanza sulla stessa linea) la cosiddetta sinistra democratica, che si riempie la bocca di diritti civili ma per i cubani che rivendicano diritti essenziali fa fatica a mobilitarsi e, a trent’anni dall’89, pronuncia ancora a denti stretti (quando lo fa) la parola dittatura per riferirsi al comunismo castrista. Insomma, la solita lunga lista di utili idioti che da sempre accompagna la triste vicenda storica dei regimi del socialismo reale.

I cubani sono coscienti, basta dare un’occhiata alle timeline di Twitter, di non poter fare nessun affidamento su una comunità internazionale che, per azione od omissione, ha sempre chiuso un occhio sui crimini della dittatura habanera, sulla corruzione e lo sfruttamento delle risorse materiali e umane dell’isola da parte del clan Castro, rendendosi oggettivamente corresponsabile della sua sopravvivenza. Tra i rifugiati del Mariel – nel 1980 – c’era il poeta e scrittore Reinaldo Arenas, una delle anime più limpide della società cubana, costretto al campo di concentramento, all’umiliazione e all’esilio per la sua doppia condizione di dissidente e di omosessuale. Juan Abreu, anch’egli scrittore, oggi residente a Barcellona, lo accompagnava in quel viaggio della speranza verso le coste degli Stati Uniti. Abreu, in una lettera aperta ai giovani cubani, li avverte che per conquistare la libertà devono essere disposti a tutto, anche a morire o ad uccidere: “Pacificamente, non si potrà sconfiggere la dittatura. Non voglio ingannarvi in un momento come questo: siete soli”. Secondo lui a Cuba, dove l’utopia rivoluzionaria avrebbe dovuto costruire la società senza classi, è in corso una paradossale lotta di classe tra un gruppo di potere formato da sfruttatori, ricchi, bianchi e razzisti e “i poveri, gli affamati, i negri, gli scamiciati, gli umiliati e offesi”, con la sinistra marxista e post-marxista schierata dalla parte degli oppressori.

Come i noti antirazzisti di Black Lives Matter, la cui avversione per le forze dell’ordine svanisce come per incanto di fronte alle retate degli sbirri del castrismo e la cui instancabile lotta contro l’eteropatriarcato si ferma davanti all’oligarchia bianca e maschilista al potere sull’isola da sessant’anni. Non è un caso che la polizia politica negli ultimi anni abbia concentrato la sua azione soprattutto sui quartieri più poveri, periferici, abitati in prevalenza da neri, quasi a sottolineare lo scollamento fra la retorica ufficiale e una realtà di discriminazione non solo politica ma anche sociale, che ha finito per accentuare le differenze tra un’élite di privilegiati e una massa di diseredati, e per restringere l’accesso a beni e servizi ai danni di coloro che vivono ai margini dell’economia sommersa e avulsi da uno Stato che certifica il suo fallimento nel collasso del sistema sanitario, nella crisi economica inarrestabile, nella costante perdita di valore dei salari. Da questa Cuba è partita la protesta che, al grido di “libertà”, sta facendo tremare le fondamenta del regime comunista.

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