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Il voto in Emilia Romagna a mente fredda: i presunti errori di Salvini e la resistenza anti-democratica di Pd e 5 Stelle

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Lasciatasi alle spalle una settimana buona, è possibile ritornare con un certo distacco sulle elezioni tenutesi in Emilia-Romagna e in Calabria, cominciando dagli “errori” che Salvini avrebbe commesso. Qui sta la prima riserva, perché per quanto il “capitano” cercasse di mobilitare tutto il suo potenziale elettorato, fino a tenere in suspense fino all’ultimo la controparte, tale obiettivo restava estremamente difficile, dato l’insediamento pluridecennale del governo di sinistra, con un intreccio fittissimo con il c.d. establishment. Sicché alla fine il pur brillante risultato di aver condotto il centrodestra a meno di tre punti dal centrosinistra, rendendo per la prima volta contendibile l’Emilia-Romagna, è stato ridotto a poca cosa da quanti, temendo il peggio, potevano trarre un profondo respiro di sollievo, esaltandosi fino a considerare Bologna la Stalingrado d’Italia, come tale solo l’inizio di una contro-offensiva sul piano nazionale. Il che, peraltro, ha comportato una sottovalutazione dell’esito della Calabria, non per nulla campanello d’allarme proveniente da quel Sud, dove le forze di governo sono maggiormente radicate.

La ossessiva ricerca e sottolineatura degli errori che Salvini avrebbe compiuto nella sua campagna elettorale emiliano-romagnola ha monopolizzato i mass-media di una certa tendenza, che ama battezzarsi come progressista, con una focalizzazione sulla scelta della candidata e sulla aggressività dei toni e dei comportamenti. Ora non è un mistero che la opzione a favore della Borgonzoni sia apparsa fin dall’inizio debole anche a quanti parteggiavano per il centrodestra, non certo perché donna, ma per incompetenza, non avendo alle spalle alcuna esperienza di alta amministrazione. Quanto all’incompetenza, c’è da tener conto di quanto è successo non solo sul piano nazionale, dove, per farla breve, c’è un presidente del Consiglio con alle spalle un curriculum di professore avvocato, ed un ministro degli esteri scaturito letteralmente dal nulla; ma anche sul piano regionale, in Umbria e in Calabria, dove il centrosinistra perdente ha presentato come candidati imprenditori pressoché digiuni di ogni esperienza politico-amministrativa. Ma c’è un punto di verità, quale costituito dalla scarsa personalità della Borgonzoni, almeno come ha potuto mostrarsi in una parte volutamente di spalla, se non di comparsa, sì da apparire una mera yes-woman vis-à-vis di Salvini, con una puntuale conferma post-elettorale. Mentre alla fine la candidata era stata costretta a dichiarare che, se perdente, sarebbe rimasta in Consiglio regionale per guidare l’opposizione; all’indomani stesso dello scrutinio è stata smentita da Salvini, per cui avrebbe deciso lui e lui solo dove la stessa sarebbe riuscita più utile, in Consiglio regionale o in Senato.

Certo, la parte debole della candidata rivelava l’opinione del segretario leghista, che la partita si doveva giocare tutta sulla politica nazionale, come una spallata al governo, con una personificazione di Salvini contro un Conte, spostatosi prudentemente dai 5 Stelle al Pd, in quel duello che è stato etichettato come un referendum personale. Di certo questo può a posteriori essere considerato un errore, ma sempre nella prospettiva di uno sfondamento che sarebbe stato probabile con una candidatura più forte, pre-condizione di una battaglia condotta insieme sul piano nazionale e locale, con una campagna parallela di Salvini e del suo/a candidato/a. Ma non è possibile alcuna controprova, dato che il leader leghista ha finito per spremere a fondo tutto il suo potenziale elettorato, sino a raggiungere un significativo 32 per cento. 

La seconda riserva riguarda i toni e i modi della campagna elettorale leghista, con al centro la enfatizzazione del caso Bibbiano e del caso Pilastro, qui con ricorso alla famosa citofonata. Niente da dire nel senso che, a prescindere da toni e modi sopra le righe condivisi da entrambi le parti in contesa, i due episodi sono sintomi di un aspetto caratteriale di Salvini, non piacevole e non pagante, cioè di lasciarsi andare nella sua voglia di identificarsi col popolo, a comportamenti un po’ istrioneschi, confortati ed esaltati da quanti al momento gli sono intorno. Dedurne un costo elettorale è cosa condivisibile, ma non fino a ritenerlo decisivo, sempre sul presupposto a mio avviso infondato, che un Salvini più temperante avrebbe rovesciato il risultato.

A sfavore di Salvini si è richiamato lo stesso sgonfiamento del voto di Forza Italia, precipitato fra il 2 e il 3 per cento, come sintomo chiaro del confluire verso il centrosinistra dell’elettorato moderato. Ora, a quanto pare, c’è uno spostamento del supporto di Forza Italia dal centronord al sud, che testimonia il cambiamento del flusso forzista da “moderato” a “clientelare”, nel senso ampio della parola, cioè di un “conglomerato”, frutto di raccolta di consensi personali. Per di più, con riguardo alla Bologna del card. Zuppi, completamente allineato sull’“ecumenismo” di Papa Francesco, con in più un panorama post-democristiano egemonizzato da una leadership che va da Prodi a Casini, c’era da scontare l’anti-salvinismo del mondo politico cattolico, qui più vivace e attivo che altrove.

Non può, invece, addebitarsi a Salvini, il fatto di avere radicalizzato il confronto, contribuendo a far nascere il movimento delle sardine, con un innalzamento della percentuale dei votanti, rivelatasi a favore di Bonaccini. A prescindere dal fatto che un ritorno al voto è un segno di buona salute del sistema democratico; questo costituisce l’effetto di una ripolarizzazione, che dovrebbe giocare proprio a favore del centrodestra, tanto da spingere il governo giallo-rosso a privilegiare una legge elettorale non maggioritaria, ma strettamente proporzionale, con una barriera di accesso al 5 per cento.  

Solo che così l’esame è del tutto incompleto, perché ci sono ben altri allarmi che provengono da una considerazione unitaria dei risultati dell’Emilia Romagna e della Calabria, questa volta con riguardo al governo giallo-rosso. Intanto il Pd, se pur primo partito in entrambe le regioni, non raggiunge più percentuali tali da poter essere spalmate sul resto dell’Italia; poi, c’è la perdita elettorale dei 5 Stelle, che pare accelerarsi tanto da far predire una loro prossima estinzione. In verità, si tratta di una conferma della loro originaria natura di movimento contro, non solo verso l’establishment ma verso lo stesso sistema, fino a sostenere per lo meno il ridimensionamento della democrazia rappresentativa a favore di quella diretta. Ne è conferma il fatto che è venuto perdendo sempre a favore dell’alleato di turno: col Conte 1, a pro della Lega, e, col Conte 2, a pro del Pd. È dubbio che il governo attuale possa sopravvivere ad un prosciugamento dei 5 Stelle che si riproducesse o addirittura si approfondisse nella sequenza delle consultazioni regionali di primavera; ma, comunque, tale fenomeno renderebbe ancor più precario l’equilibrio fra i due alleati, Pd e 5 Stelle, complice il continuo gioco di logoramento di Italia Viva.

Il che si potrà anticipare da subito, quando la tattica del rinvio non avrà più giustificazione alcuna, sì da costringere il governo a mettere sul tavolo tutte le carte relative alle questioni calde, cioè relative alla giustizia, alle concessioni, all’immigrazione … Fra l’altro, fra pochi giorni, il Senato concederà la autorizzazione a procedere nei confronti di Salvini, in contemporanea ad una ripresa massiccia dei “salvataggi in mare”, che, in quanto avvenuta nella stagione invernale, preannuncia una vera e propria ondata nella stagione primaverile-estiva.

Lo slogan è sempre quello di Borrelli, “resistere, resistere, resistere”, fino alla fine della legislatura, con una rifondazione sia del Pd che dei 5 Stelle. Solo che il problema di una sorta di rinascita è legata assai meno a una più o meno ampia riorganizzazione, quanto alla definizione di una politica identitaria, chiara e passibile di traduzione concreta. Ma questo porta inevitabilmente con sé una divisione al limite della contrapposizione fra Pd e 5 Stelle; nonché una perdita rispettiva di quelle porzioni di elettorato che ora vi si riconoscono, nell’uno e nell’altro, proprio in ragione di una certa vaghezza di programmi. Resistere, si ripete ormai ossessivamente fino alla fine della legislatura, sì da poter eleggere un successore di Mattarella non sovranista, senza accorgersi che questo in soldoni vuol dire un successore espresso da loro, cioè sintonico, come successo da Scalfaro in poi.

E qui si percepisce in pieno la loro involuzione antidemocratica. Prescindiamo pure da quelli che saranno i risultati dei prossimi appuntamenti regionali e dei sondaggi del momento, sì da non considerarli rilevanti, anche se suonassero chiaramente a favore del centrodestra. Ma signori miei, una volta acquisita la riduzione del numero dei parlamentari per via della prossima consultazione referendaria e licenziata una legge elettorale, comunque sia, veramente si pensa di poter procedere all’elezione del prossimo presidente della Repubblica col vecchio Parlamento?

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