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Impeachment senza prove: Trump sotto processo per emozioni negative. Benvenuti nella “giustizia emozionale”

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L’impeachment a Donald Trump batte due record in uno. È il primo processo del genere a un presidente che non è più in carica. Ed è il più veloce in assoluto. Sul primo punto, il Senato è stato chiamato a votare martedì 9 febbraio ed ha stabilito, a maggioranza semplice (tutti i Democratici e 6 Repubblicani) che il processo a un ex presidente, benché senza precedenti, è costituzionale. Sul secondo punto, invece, resta il mistero. Come hanno fatto, i Democratici, ad acquisire tutte le prove necessarie in meno di un mese? Perché considerando che Trump è sospettato di istigazione alla rivolta del 6 gennaio, che si è conclusa con l’assalto dei suoi supporters al Campidoglio, un accusatore deve trovare, come minimo, le prove che dimostrino la responsabilità del presidente nella pianificazione e conduzione dell’azione.

Per chiunque ricordi i precedenti processi di impeachment, a Nixon nel 1974 e poi allo stesso Trump nel 2019, l’indagine, la raccolta di prove inoppugnabili, la convocazione e l’audizione dei testimoni, sono percorsi lunghi. Nel caso del processo a Trump nel 2019, già i tempi si erano accorciati enormemente perché la raccolta di prove non c’era stata, ma solo l’audizione di testimoni delle sue telefonate al presidente dell’Ucraina, oggetto dell’impeachment. L’accusa era abuso di potere, per aver fatto pressioni sul presidente Zelensky, al fine di spingerlo ad indagare su Hunter Biden, figlio dell’attuale inquilino della Casa Bianca. L’impeachment si era fermato in Senato, non solo perché la maggioranza era repubblicana, ma anche per la fragilità dell’impianto dell’accusa. La seconda volta che Trump finisce sotto impeachment ci sono ancora meno testimonianze e nessuna prova. Però si gioca sulle emozioni. Questa è la vera novità: considerare l’emozione, negativa in questo caso, come corpo del reato.

Nella principale arringa dell’accusa, il deputato democratico Jamie Raskin narra una storia ricca di ricordi e dettagli personali, come il figlio morto il giorno prima dell’assalto al Campidoglio, la figlia presente con lui e costretta a ripararsi al momento dell’assalto, i colleghi che inviano messaggi di addio ai parenti perché temevano di morire, il rumore dei pugni dei rivoltosi sulla porta “come un rullo di tamburo, non lo dimenticherò mai”. La sua arringa si interrompe per la commozione, aumentando il pathos. Il resto è retorica: citazioni di Lincoln e richiami all’unità e appelli contro la violenza della piazza. Ma c’è una prova contro il presidente? Il discorso di Raskin fa il paio con la testimonianza della deputata Alexandria Ocasio Cortez, che su Instagram, rivolgendosi ad un enorme seguito online, ha narrato la sua cronaca dell’assalto al Campidoglio, definendosi una “sopravvissuta” traumatizzata. Il dibattito, dopo questa testimonianza, si è concentrato sulle circostanze: Ocasio Cortez non era al Campidoglio, dunque la sua è un’esperienza indiretta. Ma il punto è, ancora: è una prova contro il presidente?

Nei video mostrati dai Democratici si vedono cose già note, solo montate in modo relativamente inedito. Le cose già note: il discorso di Trump, che arringa la folla e le scene dell’assalto al Campidoglio. Montate in modo (relativamente) inedito: il video alterna le parole di Trump con le scene di assalto, per dimostrare come gli slogan urlati dai manifestanti fossero ispirati dalle stesse parole di Trump. E come Trump, nei suoi tweet dopo l’assalto, non fosse genuinamente “pentito”. Ma è una prova, questa? Trump ha ordinato ai suoi di attaccare il Campidoglio? No. Non c’è alcun ordine di assalto, né viene dimostrata alcuna pianificazione. Trump ha esplicitamente condannato l’assalto al Campidoglio. Il giorno stesso aveva invitato i suoi supporters a tornare a casa e rispettare legge e ordine. Li aveva anche invitati a marciare verso il Campidoglio, vero. Ma tantissime manifestazioni, di sinistra soprattutto, si sono concluse con una marcia sotto al Campidoglio, fermandosi di fronte alla sede del potere legislativo. Eppure si processa la sua “intenzione” inespressa. Anzi, l’emozione, la vibrazione negativa, che è stata provocata dalle sue parole, dal suo tono di voce, dal suo atteggiamento, dalla sua ostinazione a non accettare l’esito di un’elezione che ritiene truccata.

E come sorprendersi? La vittoria di Trump è stata salutata da manifestanti democratici traumatizzati dall’esito elettorale, curati in sessioni di terapia dell’urlo primordiale (primal scream), studenti che hanno avuto il permesso di saltare gli esami sempre perché traumatizzati dall’esito elettorale e corsi universitari annullati per lo stesso motivo: permettere agli studenti e a i professori di riprendersi dallo shock. L’ex presidente repubblicano parrebbe l’incarnazione di una fobia della sinistra, quindi si giudica sulle emozioni (fino all’infarto) che provocano i suoi discorsi o la sua stessa esistenza.

La questione non riguarda solo Trump. Tutta la campagna di denunce di aggressioni sessuali, MeeToo, si basava su pochissime prove e moltissime emozioni soggettive. La stessa Alexandria Ocasio Cortez ha denunciato di aver subito molestie sessuali, ma senza mostrare prove e senza neppure l’intenzione di portare il suo aggressore di fronte a un giudice. È un atteggiamento: si stigmatizza la situazione e la categoria generica degli aggressori (il maschio) anche se non è dimostrabile uno stupro (per cui servirebbe anche una prova medica). Tante carriere distrutte dalla campagna MeeToo erano di persone perfettamente innocenti. Uno sguardo di troppo, una parola di troppo e tuttora si rischia una denuncia per molestie.

E la giustizia emozionale, fatta di sentimenti soggettivi, da anni si sta estendendo a tutti i campi delle interazioni sociali. Basti vedere i nomi dei nuovi reati, che paiono concepiti da psicologi più che da giuristi: l’omofobia (paura dell’omosessuale), estesa a omotransfobia (paura dell’omosessuale e del trans), l’islamofobia (paura dell’Islam e dei musulmani), sono tutti psico-reati nel vero senso del termine e sono assolutamente arbitrari. Non solo non sono dimostrabili, non solo sono superflui per condannare atti di aggressione, che sono già puniti dalla legge. Ma non sono neppure dimostrabili psicologicamente. Non c’è neppure uno psichiatra di regime, come usava in Unione Sovietica, che ti diagnostica una fobia per i musulmani o per i gay, prima della condanna. E poi, da quando, in Occidente, si condanna qualcuno per una malattia mentale? In ambito giudiziario non ci si è mai posti realmente il problema. E quindi adesso si giudica, sulla base di emozioni, anche il presidente.

Ma solo in una direzione. Perché è incredibile constatare come unicamente a destra ci siano i portatori sani di odio. A sinistra ci sono le vittime. Se Black Lives Matter e Antifa devastano interi quartieri, lo fanno per amore interraziale e giustizia sociale? Secondo l’attuale pensiero, lo fanno perché oggettivamente vittime di un “razzismo sistemico”, anche se sono ricchi studenti bianchi, o avvocati armati di molotov, che parteggiano per la causa. Anche loro sono oggettivamente “vittime”. Se invece sei un veterano che spara per difendere tuo padre da un’aggressione, sei colpevole, e un linciaggio organizzato online e dal vivo ti può spingere al suicidio. Ma non sei vittima, ma portatore sano di odio. È la nuova lotta di classe contro gli “odiatori”, condotta dalle “vittime”, si bada alle categorie collettive, come in tutte le lotte di classe, non certo alla responsabilità individuale.

Quindi perché stupirsi che Trump, adesso, sia processato senza prove? Ha suscitato emozioni negative per quattro anni, la sua stessa esistenza istiga alla violenza, è un portatore sano di odio, le sue parole sono da intendersi come una dichiarazione di guerra alla democrazia e vanno rimosse dai social network, prima ancora che processate in Congresso. Tutte le violenze di questi ultimi otto mesi, che siano state commesse dalla sinistra molto più che dalla destra, sono comunque imputabili alla sua retorica “divisiva”. È questo che va sotto processo, non altro.

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