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La guerra si decide al televoto? Eurovision sequestrato dalle opposte propagande

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La guerra si decide al televoto? Secondo Cappellini e, purtroppo, Mauro Coruzzi sì, facendola passare per l’Eurovision. Di Cappellini, homo piddinus, si può capire, di Coruzzi meno essendo egli persona liberamente critica e sufficientemente esperta da sapere che il televoto è una delle farse dei tempi moderni. C’è questo dibattito surreale sulla vittoria annunciata dell’Ucraina, Paese non europeo, a un festival europeo di canzonette tutte uguali, “un grande Erasmus” come l’ha definito, non a torto, l’eterno giovane conduttore Cattelan, per non dire il trionfo dell’agenda gender come la vuole l’Unione, tutta una melassa di falsi valori, di finti sentimenti. Coi presentatori allusivamente strizzati in certe tutine da nanetti di Biancaneve.

Vittoria annunciata quella Ucraina e non tanto perché la musica, inevitabilmente, risenta dello scenario politico, quanto per l’aforisma di Frank Zappa: la politica è il ramo spettacolare dell’industria. Qui tutto è mirabilmente intrecciato: politica, geopolitica, propaganda, business, spettacolo (finto, pessimo), agenda globalista. Quanto a dire il peggio da salvare della subcultura occidentale a discapito della vera cultura da difendere, da recuperare.

E insomma secondo Cappellini e, ahinoi, Coruzzi, l’Ucraina ha vinto per il televoto. Ma il televoto, dove per esprimersi si paga, è una foglia di fico da che televisione è televisione, serve a far macinare soldi alle compagnie telefoniche, al network, pubblico o privato è uguale, e a dare quella parvenza comica di democrazia popolare. Io non dimenticherò un vecchio programma, agli albori della televisione commerciale, cui partecipai come figurante, insomma uno del pubblico che sta lì a sorridere e battere le mani a comando anche per dieci, quindici ore di fila. Anche lì, anche allora, quarant’anni fa, si votata “col televoto” e il regista, un nome storico, uno proveniente dalla gloriosa Rai, ci esortava dall’interfono: “Stronzi, premete quei pulsanti del cazzo, che si veda che state votando”. Ma i pulsanti non c’erano, c’era un adesivo con su disegnati dei pulsanti, che in televisione venivano benissimo, e noi ci sentivamo oltre l’umiliazione nel fingere di smanettare.

Cosa fa pensare a Cappellini che 40 anni dopo, con logiche ancora più urgenti, con profitti ancora più massicci, in televisione sia diverso? Qui è tutto un pulsante da premere, al televoto dell’Eurocontest, al televoto elettorale, ma la sensazione è che, ancora una volta, i pulsanti siano dipinti. L’Ucraina doveva vincere e ha vinto perché così voleva la contropropaganda. Con tutto ciò che di sgradevole ne sarebbe seguito, come quella spia mascherata da giornalista che, in nome della Grande Madre Russia, voleva un missile Satan a bombardare Torino. La prima guerra, o se si preferisce invasione, totalmente mediatica ha imbastardito la sua comunicazione: con i propagandisti, gli opportunisti, le zoccole del regime russo, le falsità, le negazioni totali della realtà sotto gli occhi di tutti, con certe facce senza faccia a smentire le stragi nelle Bucha e Mariupol rase al suolo, impegnate a dirottare la colpa su chi ha subito.

Ma anche con un atteggiamento sempre meno comprensibile da parte degli aggrediti. Zelensky, il presidente ucraino, è sembrato per molto tempo uno alle prese con un problema immane, più grande di lui, uno che faceva quel che poteva per tenere insieme il suo popolo. Ma se adesso si intromette perfino in un festival di canzonette insulse, se personalizza il conflitto, se c’è sempre lui di mezzo, se l’invasione è una questione privata, finisce per rompere i coglioni e il problema se sia o meno manovrato diventa secondario. Ormai è rimasta solo la filosofa Di Cesare, famosa per la prosa farraginosa, sul sovietico vintage, a parlare di annessioni: per il resto, guerra, invasione, logiche e follie si riducono a un match fra Putin e Zelenzky e i punti sono di chi appare di più, di chi la spara più grossa sui media. Due influencer, ma che mettono paura come la mettono quelli fuori controllo.

L’Ucraina merita tutto l’appoggio e la solidarietà di questo mondo, ma un conto è chiedere aiuto, legittimamente, comprensibilmente, un conto è pretenderlo e alle proprie condizioni, cioè il mondo deve fare come vogliamo noi. Noi? Noi lui, il capo, Zelensky. Cosa che porta un atlantista di ferro come Daniele Capezzone ad ammettere serenamente da Porro, rispetto alla storia dell’Eurofestival: mi sento un terzo estraneo, per la prima volta mi irritano tutti in questa faccenda. Non solo a lui. Diventa ogni giorno più insopportabile la protervia di Putin e delle sue groupie italiane, al solito le più volgari e spregiudicate (saranno le prime a cambiare marciapiede, al momento giusto); e diventa non meno insopportabile la proiezione di una resistenza che, nell’estrema tragicità, ha dell’esaltato, quasi del compiaciuto: siamo in mezzo a due nazionalismi da fratelli coltelli, c’è un invasore e c’è un invaso e questo non va mai dimenticato. Ma, alla fine, le due sensibilità opposte finiscono per rispecchiarsi, con fastidio di un mondo che sempre meno capisce, almeno se vuole continuare a ragionare, se non ha ancora rinunciato a capire, il che provoca dubbi e sconcerto. Per quelli che invece demandano un disastro epocale al televoto, non c’è problema.

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