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La libertà non è un pranzo di gala: la disobbedienza “incivile” nel tempo dei social media

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In un’epoca contraddistinta dalla caotica cassa di risonanza dei social media, così immediati, così oleografici e sdrucciolevoli nella percezione della realtà del messaggio veicolato, e dall’infuriare della crisi pandemica, la quale dopo un anno e mezzo ha polarizzato il dibattito pubblico ben oltre il punto di non ritorno, c’è una locuzione che sembra affiorare all’aria, come se tornasse a pelo d’acqua dopo una lunga, immota apnea.

È la disobbedienza civile. Ne leggiamo, ne sentiamo parlare, la vediamo dipinta sui cartelli che si affastellano nelle piazze o sulle bacheche virtuali di cittadini che tra un buongiornissimo kaffè e un post su qualche complotto segretissimo ci tengono a comunicarci, e a comunicare al governo chiaramente, il loro essere dei ribelli, dei descamisados alla Pancho Villa.

Una delle caratteristiche più turpi della contemporaneità è senza dubbio quella di aver ingenerato l’illusione che tutto sia facile, semplice, lineare e tendenzialmente a costo zero. Persino la rivoluzione. Persino la ribellione.

Basta imbracciare il computer, dopo aver trangugiato una fetta di ciambellone e bevuto un cappuccino, aprire il proprio profilo Facebook e scriverci sopra una qualche chiamata alle armi, e ci si sentirà meglio, in pace col mondo. Forse anche più furbi.

L’atto di dissonanza e di dissidenza rispetto al potere costituito diventa un baudrillardiano ologramma, una copia originante da nessun originale. Ed è per questo che si reclama la libertà, si rivendicano i diritti, ma poi si rifluisce nell’italico ‘armiamoci e partite’, lasciando che sia immancabilmente sempre il famigerato ‘altro’ a escogitare il come e a porre in essere qualche condotta, subendone spesso le conseguenze che in genere sono anche spiacevoli.

Il rivoluzionario social timorato delle autorità inveisce contro i complotti, contro l’abuso del potere, contro la illegittimità delle leggi, evocando la giusnaturalistica forza della legge naturale (senza sapere cosa sia, chiaro), ma poi davanti alla forza reale del potere pubblico chinerà la testa e lascerà che ad andare davanti al metaforico plotone d’esecuzione siano gli altri.

Quando Henry David Thoureau scrisse, all’inizio del suo “Disobbedienza civile”, che “il migliore dei governi è quello che governa di meno”, lo poteva ben sostenere, avendo sperimentato l’interno di una galera e avendo soprattutto edificato una sua propria, coerente ed organica visione sulla ingiustizia strutturale del potere pubblico.

E d’altronde sarà sempre Thoureau, qualche pagina più avanti, parlando dei suoi confronti e scontri con la persona del suo vicino di casa esattore delle tasse a scrivere come in uno Stato che incarcera chiunque ingiustamente, il posto dei giusti sia la prigione.

Un tempo, prima di affermare la disobbedienza si decostruiva il problema con cui ci si doveva confrontare; in altri termini, l’oggetto della disobbedienza.

Oggi al contrario, nella narcisistica cacofonia di voci, idee sminuzzate, progetti abborracciati, complottismo d’accatto, si antepone la virtualità edonistica di un atto di rifiuto indirizzato contro il nulla o sparato ad alzo zero contro l’obiettivo sbagliato tanto per mostrarsi in pubblico e soltanto perché nella chat Telegram o nel gruppo Facebook il leader di turno così proponeva e allora si deve seguire, ci si deve conformare, e si sostituisce il Pifferaio statale con un altro genere di Pifferaio.

Si cessa di essere individui autodeterminati e si cade preda di uno psicotico collettivismo digitale che urla, strepita, minaccia, si autoconferma nelle convinzioni apodittiche.

Un tempo, il disobbediente era spirito critico, dai sensi allertati e attenti, e muovendosi sul delicato crinale, friabile, del confine tra legalità e illegalità, doveva nutrirsi di sapienti previsioni e di capaci analisi. Oggi invece si condivide un meme e si pensa di aver fatto la rivoluzione.

Ma c’è poi un altro aspetto che rende inqualificabile e pernicioso lo pseudo-ribellismo contemporaneo: la mancanza di volontà di accettare rischi sulla propria pelle per azioni o omissioni, di disobbedienza, diventa inversamente proporzionale alla idea, gretta, sudicia e meschina, di doverli riversare sulle spalle di quelli che sembrano essere i propri antagonisti.

Prendiamo la questione del Green Pass: mute idrofobe di no-vax dal senso strategico di una lontra se la prendono con gli esercenti che lo richiedono, visto che la legge a questo obbliga. Li accusano di essere dei collaborazionisti, di mancare di coraggio. E così facendo proiettano la loro vigliaccheria strutturale, la loro mancanza di coraggio, sulle spalle di altri.

Perché quel che contestano, ovvero l’aderire e ossequiare un precetto di legge asseritamente ingiusto, lo riversano integralmente sulle spalle di un altro, di un padre di famiglia, di un proprietario di un’attività che ancora oggi sta a leccarsi le ferite economiche.

È chiaro: un sessantenne la cui unica ragione di vita sia ormai condividere panzane online, dall’alto della sua pensione statale, senza dover sopportare i costi economici e sociali delle sue posizioni, può certo permettersi di fare la morale a un ristoratore sfiancato da un anno e mezzo di lockdown, limitazioni, chiusure selettive, riduzione della capienza, costi di sanificazione, merce pagata e buttata.

Queste azioni di boicottaggio sono delle aggressioni alla autodeterminazione dei commercianti e degli esercenti che scelgono, secondo loro decisione e convenienza, di aderire o meno al precetto di legge, sono assalti alla loro libertà commerciale e individuale e alla loro proprietà.

Se si ritiene ingiusto dover mostrare il Green Pass o se si pensa che il dato ristoratore stia sbagliando, si cambi ristorante senza dover fare collettive chiamate alle armi o scenate da prima donna.

Il sessantenne rivoluzionario pensionato deve anche sentirsi discretamente trasgressivo e maudit nell’aderire ai progetti di boicottaggio telefonico: si chiama il ristoratore ‘collaborazionista’, si prenota e non ci si presenta.

Tanto al pensionato che si sente Jesse James che gli frega, lui cenerà con i bastoncini Findus guardandosi un film dei Vanzina, non prima però di aver salutato i suoi compagni di lotta digitale sui peggiori canali social, compiacendosi di aver rovinato la serata al ristoratore non sufficientemente rebelde.

Per carità, ci sono anche quei commercianti che consapevolmente sono rimasti aperti durante le chiusure imposte per legge e hanno affrontato le sanzioni, loro autenticamente disobbedienti, ma in genere questi diventano sempre i paladini e lo scudo morale e l’alibi di tutta quella massa di altri ignavi che preferiscono trasgredire per interposta persona. Il loro gesto viene sdilinquito e svilito dalla interpretazione collettiva della fumisteria complottista.

Quando Lysander Spooner, nel 1844, creò la American Mail Letter Company per contrastare il monopolio pubblico delle spedizioni postali era ben consapevole di quali sarebbero state le conseguenze dell’incrociare la spada contro il Golia statale, eppure la consapevolezza piena che la questione non sarebbe finita bene non lo indusse a desistere.

Il governo americano impiegò sette anni per piegarlo, ricorrendo chiaramente alla legislazione e alla imposizione ex lege del monopolio, dopo che i giudici avevano riconosciuto le ragioni concorrenziali di Spooner.

Non appare casuale quindi che Spooner, in “Legge di natura”, definisca la legislazione come presa di possesso del controllo da parte di un individuo o di un gruppo su tutti gli altri: sapeva quel che diceva, essendoci passato e portando sulle sue carni ancora le cicatrici della verità empiricamente dimostrata di quella asserzione.

Ma Spooner non faceva fallire con trucchetti gli altri uffici postali e sapeva che i problemi, una volta insorti, li avrebbe dovuti affrontare lui, offrendo (in metafora) il petto allo sparo dei fucili statali. Non si sottrasse, con qualche escamotage, né cercò comodi capri espiatori.

La tragicità del tempo presente, la illusione grondante ignominia, è che tutto sia semplice e indolore. Al massimo, il costo drammatico di certe scelte verrà sopportato da altri. Così ragionano i rivoluzionari da salotto che si danno convegno seguendo hashtag e personaggi da operetta.

E invece il concetto stesso di disobbedienza civile implica la autoresponsabilizzazione totale, fino alle estreme conseguenze: se si ritiene ingiusta una legge, stando a principi di ragione o di legge naturale, non si fanno pagare i danni dell’atto di rivolta individuale a soggetti innocenti, esternalizzandone il peso. Non si boicottano gli altri, perché li si ritiene ‘collaborazionisti’. Cosa che concilia un inciso sulla barbarie semantica in cui siamo caduti, posto che certi paragoni hanno davvero sfiancato.

Non siete Agamben, non siete Cacciari, e il discorso che loro fanno, condivisibile o meno, non è che i medici vaccinatori siano le Einsatzgruppen hitleriane, o che dietro la fisionomia dei centri vaccinali si celi il nuovo campo di sterminio, per l’amor di Dio. Cerchiamo di mantenere un minimo di decoro intellettuale e di senso delle proporzioni e della storia.

Agamben e Cacciari parlano di critica alle scelte di governo nel generale quadro di una torsione potenzialmente autoritaria del vivere civile e dell’ordinamento, sulla impossibilità di rendere permanente l’emergenza, postulando lo spettro sulla linea d’orizzonte di uno schmittiano stato di eccezione che finisce per inocularsi nell’ordinamento e nella coscienza sociale passo dopo passo, provvedimento dopo provvedimento.

Anche la tragica banalizzazione del pensiero critico diventa altra esternalità negativa dei simulacri digitali di disobbedienza. Disobbedienza incivile, va detto.

Perché ingrigisce e rende materia inerte e complottista tutto, anche le argomentazioni più serie e ponderate. L’ermeneutica complottista da Facebook delle posizioni di Cacciari è la migliore alleata del potere costituito che si possa immaginare, esattamente come le telefonate collettive di false prenotazioni sono una attività indegna e da guerra di tutti contro tutti, per la somma gioia del potere statale che assiste in sollucchero.

D’altronde come scriveva R. Vaneigem, trasgredire i tabù, così comanda il progresso economico.

Il ribelle invece, come il pioniere, è quello con le frecce nella schiena. Nella sua schiena. Non in quella del vicino di casa o del barista o del ristoratore.

La disobbedienza, come la libertà, non è un pranzo di gala, e se uno vuol praticarla seriamente deve essere pronto a pagarne le conseguenze, sulla propria pelle.