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La sharia è già da tempo in Europa: impariamo a combatterla qui prima che a Kabul

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Con il sangue ancora ben visibile all’aeroporto di Kabul, è iniziato il solito balletto delle distinzioni. Gli autori del massacro – ci viene detto – non rappresentano affatto il vero islam, che in realtà sarebbe pacifico, illuminato e tollerante.

Chi scrive pensa sia giunto il momento di finirla con queste ipocrite finzioni. Lo spirito islamico è intrinsecamente oscurantista e per niente tollerante. Gli islamici, inclusi i cosiddetti “moderati”, perseguono un disegno di egemonia culturale che non sempre ricorre alle armi, ma punta comunque alla conquista dall’interno dei Paesi occidentali. E con questo intendo conquista delle nostre menti e dei nostri cuori.

Molti si scandalizzano di fronte alla perplessità che suscita il progetto di costruire sempre nuove moschee nelle città europee. Provate però a chiedere la reciprocità, a pretendere che al contempo venga concesso il permesso di costruire nuove chiese non dico in Afghanistan, ma in nazioni in teoria alleate dell’Occidente come Arabia Saudita, Qatar e Pakistan.

Si innalza subito un muro di dinieghi: loro e noi non siamo uguali. Una nuova moschea a Milano, Parigi o Londra è un diritto sacrosanto. Una nuova chiesa a Riyad, Islamabad o Doha è un’offesa intollerabile per l’islam.

Fino a quando saremo disposti a sopportare questa incredibile differenza? Abbiamo adottato allegramente e in modo unilaterale il multiculturalismo, senza chiedere – com’era nostro diritto – che anche gli altri lo facessero.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Interi quartieri delle nostre metropoli sono governati dalla sharia tanto che, passeggiando in certe aree di Londra, Parigi e Bruxelles, si ha la sensazione di essere trasportati all’improvviso in un mondo completamente diverso.

Gli abitanti vivono osservando con scrupolo leggi e usanze dei Paesi d’origine, ignorando con la massima tranquillità ciò che avviene all’esterno. E l’immigrazione incontrollata e favorita dal buonismo imperante in certi ambienti ha aggravato a dismisura la situazione.

Ora si è capito che l’islamismo è tra noi, e che non occorre andare in Medio Oriente per trovarlo. E’ ovunque, come un pesce che nuota nel clima di torpore generale perfettamente a suo agio.

Il romanzo “Sottomissione” di Michel Houllebecq, che tanto scandalo ha suscitato nel mondo occidentale, si limita a fare previsioni che, visto l’andazzo corrente, potrebbero realizzarsi in tempi non lontani. Potremmo insomma trovarci con un partito islamico al potere, votato per amore del quieto vivere e aspirando alle prebende economiche che offrirebbe.

Si tratta di una mera distopia? Dipende. Se riusciremo a svegliarci prima del disastro c’è qualche probabilità di salvezza. In caso contrario la rassegnazione, già oggi percepibile in vasti settori della nostra società, ci condurrà nel buco nero descritto dallo scrittore francese.

Gli immigrati hanno il diritto di conservare la propria identità a certe condizioni. Non possono pretendere di vivere in isole del tutto estranee al contesto territoriale, sociale e culturale che le circonda. E invece proprio questo è accaduto senza che le autorità dei vari Stati occidentali coinvolti, pur percependo il pericolo, ne impedissero la diffusione di fatto.

A Londra non occorre andare nella vituperata periferia. È sufficiente percorrere la centralissima Edgware Road, piena di negozi e hotel di lusso, per sentirsi in un Medio Oriente nel quale la cultura occidentale è pressoché assente.

Si è consentito per decenni tutto ciò, tollerando (nel senso peggiore del termine) che i giovani frequentassero soltanto scuole islamiche e che molte moschee diventassero sedi in cui si predica l’odio contro ogni manifestazione di diversità. Perché, dunque, stupirsi dei frutti avvelenati che una simile cecità ha prodotto?

Che c’è di così orribile nell’esigere per legge che i discendenti degli immigrati siano esposti sin dalla prima infanzia alle nozioni basilari della cultura occidentale? Ed è davvero rivoltante chiedere loro, se non l’apprezzano in toto, di ritornare ai Paesi d’origine dove possono applicare quotidianamente i dettami appresi dai predicatori nelle moschee? Per molti questa è intolleranza ma, in realtà, si tratta di semplice buon senso.

Solo delle nazioni che hanno smarrito la propria identità possono adottare il multiculturalismo nella sua accezione peggiore, destinato alla lunga a causare la dissoluzione di quella stessa identità. Purtroppo è una tendenza assai diffusa. Nei quartieri anzidetti la matrice culturale islamica viene spesso vissuta in un modo così esclusivo da impedire il dialogo con gli “altri”, conducendo alla fine gli adepti a ritenere che la violenza sia l’unico strumento utilizzabile per prevalere. Si è ritenuto per lungo tempo che i segnali – pur evidenti – fossero riconducibili a casi isolati, e il risveglio è stato inevitabilmente brusco. Il problema è capire se siamo ancora in tempo ad arginare il fenomeno.

Chissà se l’Unione europea (che tanti si ostinano a confondere con l’Europa) riuscirà ad elaborare una strategia coerente per fronteggiare l’emergenza. Tutta presa com’è dalle discussioni sulle percentuali di sforamento del deficit. In sintesi, la tolleranza è un’ottima cosa ma non può essere del tutto priva di limiti. Come del resto il multiculturalismo, a patto che non diventi una pura e semplice “cultura della resa”. E come il pacifismo, a condizione che non sia unilaterale rifiutando di guardare in faccia la violenza praticata da altri. A Bruxelles pare che la gravità degli eventi non venga percepita. La Ue è una Bella Addormentata il cui risveglio sarà demandato a un principe più nero che azzurro.

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