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“L’Europa si commuove per i curdi ma non dice una parola sulla diaspora dei cristiani siriani”

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Il racconto della giornalista cristiana siriana di Aleppo Jala Kebbe

“Leggendo o guardando i media occidentali, si ha l’impressione che il nord-est della Siria, oggi sotto attacco dell’esercito turco, sia territorio curdo, popolato e governato esclusivamente da curdi. I curdi sono il gruppo minoritario più numeroso della regione ma non sono la maggioranza. La popolazione delle montagne della Turchia e dei loro fianchi meridionali e occidentali è sempre stata particolarmente varia: una piccola città, prevalentemente curda, attraversava un villaggio di arabi sunniti che confinava a sua volta con una frazione di Yezidi o un villaggio cristiano. Ma i cristiani che hanno vissuto nella Mesopotamia settentrionale per migliaia di anni, sembrano completamente dimenticati dai media. Eppure fanno parte a pieno titolo del Sistema democratico federale della Siria settentrionale e a loro volta consegnano anche migliaia di uomini per le forze armate. Lo stesso si può dire dei cristiani di altre parti della Siria, la cui sorte non so per quale motivo non sembra minimamente interessare l’Occidente”. A parlare è Jala Kebbe, giornalista cristiana siriana che oggi vive a Parigi ma la cui famiglia vive ancora ad Aleppo.

“I miei genitori sono rimasti ad Aleppo durante tutta la guerra – racconta – e non hanno mai voluto lasciare la Siria ed ancora oggi vivono lì. Il quartiere cristiano dove vivono è stato più volte bombardato. Una volta un missile è stato lanciato contro il palazzo dei miei genitori ed è entrato nella finestra del vicino. Fortunatamente in casa non c’era nessuno. Non so per quale miracolo poi il missile non è esploso. Ha distrutto le pareti ma non è esploso. I miei genitori, mio fratello e mia sorella sono vivi per miracolo. Bastava che atterrasse qualche centimetro più in basso e sarebbero tutti morti ora. Un giorno mia nonna era sul balcone delle vicine quando è caduta una bomba. Il balcone si è distrutto solo in parte ma lei si è miracolosamente salvata. Questo era il nostro quotidiano durante la guerra”.

Jala racconta anche il suo esilio dalla Siria, il suo ritorno, la volontà di vivere la normalità e di ricostruire un paese in macerie. “Io ho vissuto in Siria fino al 2014 – racconta – dopo la laurea volevo continuare i miei studi in Francia, a Parigi. Sono riuscita a realizzare questo sogno e soltanto nel 2016 ho effettuato il mio primo viaggio di ritorno in Siria. Biglietto carissimo e non rimborsabile. Al ritorno non sono potuta tornare subito in Francia perché all’epoca Daesh aveva conquistato la strada tra l’aeroporto e la città. Ho dovuto aspettare a lungo che l’esercito riprendesse il controllo della zona e aspettare che bonificassero la strada dalle mine che i jihadisti avevano piazzato lungo la strada. Sono tornata di nuovo ad Aleppo anche a Natale e nell’estate del 2017 e ci sono ritornata ogni anno almeno a Natale ed in estate. Oggi la città si sta pian piano ricostruendo ma all’inizio non c’era molta elettricità e nemmeno molta acqua. A volte l’elettricità mancava per settimane intere e andavamo avanti coi generatori. Ma i generatori erano cari. Poi hanno creato delle specie di batterie giganti, dei generatori che davano elettricità ad ogni strada e tu potevi acquistarla secondo i tuoi bisogni. Queste batterie erano accese due ore la mattina e dalle 16 fino a mezzanotte la sera. Per noi, era già un lusso rispetto alle settimane in cui non esisteva altra fonte di energia. Ricordo i periodi in cui attingevamo acqua da pozzi nei quali sapevamo che l’acqua era inquinata. Non c’era altro da bere e per lavarci. Non avevamo molto cibo, solo cibo in scatola e pasta, senza frutta, verdura, ortaggi. Ma la cosa peggiore era quando mancava l’acqua. A volte ad Aleppo mancava per lungo tempo ed era terribile, disumano”.

Nel racconto di Jala, il cui viso si vela di tristezza nel ricordo dei duri giorni della guerra, trapela poi la delusione per l’indifferenza dell’Europa ma anche della Chiesa per la sorte dei cristiani di Siria. “Nessuno è venuto in nostro soccorso – racconta – la Chiesa e l’Europa, il Papa in prima persona hanno taciuto sulla nostra lenta agonia, sulla nostra diaspora. Il Papa è stato subito pronto a condannare il massacro di Ghouta ma è stato incredibilmente silenzioso quando i jihadisti hanno bombardato i quartieri cristiani di Damasco. Le bombe cadevano tutti i giorni sulle chiese ed i luoghi di culto cristiani ed il Papa non ha detto una parola. Perché? A Damasco c’è la Chiesa di San Paolo dove secondo la tradizione l’apostolo fu per la prima volta battezzato. Perché non ha detto una parola? E così anche l’Europa ha taciuto sulle sorti di Knaye, Yacoubieh e Gidaideh, i villaggi cristiani della Valle dell’Oronte, nella provincia di Idlib con i terroristi del fronte jihadista Hayat Tahrir al-Sham, affiliato ad Al-Qaeda ed erede di Jabhat Al Nusra che bombardavano e massacravano indisturbatamente la popolazione”.

Jala, da giornalista cristiana, passa anche a raccontare la grande diaspora dei cristiani di Siria, una diaspora completamente ignorata dai media occidentali. “I giovani cristiani di Aleppo se ne sono andati. Prima, noi eravamo il 10 per cento della popolazione della città. Oggi se riusciamo a totalizzare l’1,5 per cento è già un miracolo. Non c’è più nessuno. Chi è partito, chi è morto durante gli anni più duri della guerra. Molti sono partiti per il Libano e poi si sono dispersi altrove, in Canada, Australia, America latina ed Europa ovviamente. Molti sono in Belgio perché ci fu un prete siriano che riuscì a creare un salvacondotto per portarli in questo paese. Grazie a lui oggi c’è una grande comunità di siriani cristiani in Belgio. Altri sono fuggiti in Svezia. Molti sono originari non solo di Aleppo ma anche del Nord Est della Siria, di villaggi ricchi dove c’era agricoltura ed anche petrolio e che si erano già trasferiti ad Aleppo all’inizio della guerra. I cristiani siriani sono fuggiti prima in Libano, poi dal Libano alla Turchia, a Smirne. Da li salpavano per la Grecia e poi seguivano rotte diverse, o quella dei Balcani fino in Repubblica Ceca o attraverso l’Italia e la Francia”.

La città che racconta Jala era una moltitudine di diversità religiose e di sfumature cristiane spazzate via dalle bombe e dalla violenza. “Ad Aleppo ci sono chiese siriane cattoliche e ortodosse, armene cattoliche, greche ortodosse, maronite etc. Molte sono state distrutte, reliquie di inestimabile valore bruciate, rubate, perdute per sempre. Perché sui media si è parlato pochissimo ad esempio di quanto accaduto a Maloula? Monache sequestrate, chiese incendiate con i jihadisti di gruppi ribelli come Al-Nusra che hanno costretto gli abitanti del villaggio a maggioranza cristiana a convertirsi all’Islam, hanno decapitato innocenti che si rifiutavano, una barbarie inaudita. E stiamo parlando dell’ultimo villaggio aramaico che parla la stessa lingua che parlava Gesù. Questo luogo andava protetto, la Chiesa e l’Europa avrebbero dovuto dire qualcosa, ed invece sono rimaste in silenzio. Il loro principale cruccio era di dare la responsabilità di tutto l’orrore ad Assad dimenticando la ferocia dei ribelli jihadisti che hanno sgozzato innocenti cristiani alle porte della città. Queste sono ferite che non si rimargineranno mai. Noi cristiani di Siria non dimenticheremo mai il silenzio dell’Europa e della Chiesa, il fatto di aver abbandonato alla loro sorte i cristiani di Siria”.

I cristiani in Siria rappresentavano circa il 15 per cento della popolazione del Paese nel 1905, ricorda Jala, ed erano ancora il 10 per cento della popolazione siriana prima dell’inizio del conflitto nel 2011. La città di Aleppo, per esempio, aveva circa 400.000 cristiani prima della guerra e oggi ce ne sono probabilmente meno di 50.000. E la diaspora continua, imperterrita, anche nel resto del Medio Oriente, nel silenzio dei media occidentali e delle autorità religiose cristiane.

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