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L’Onu al servizio di antisemiti e dittatori e l’Occidente rinnega la sua identità

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Nell’epoca della globalizzazione, l’organizzazione – almeno in teoria – più “globale” di tutte le organizzazioni intergovernative, le Nazioni Unite – votata sin dalla sua fondazione (a San Francisco nel 1945) al perseguimento degli ideali della pace universale, alla cooperazione internazionale e alla tutela dei diritti umani – dovrebbe in qualche modo essere percepita come un organismo di grande autorevolezza, capace di dirimere conflitti a tutti i livelli, di farsi alfiere della giustizia e della difesa dei più deboli, di incarnare pienamente quei valori su cui essa stessa dice di fondarsi. Condivisibile o meno (e l’autore propende per il meno), questo dovrebbe presumibilmente essere il ruolo dell’Onu a fronte del continuo processo di integrazione orizzontale che è tuttora in atto. Dovrebbe fare “da paciere” e dare il buon esempio.

A trent’anni dalla caduta dell’Antifaschistischer Schutzwall e dell’ammainabandiera sul pennone del Cremlino, e a quasi quaranta da quelle memorabili iniziative di slancio umanitario che emozionarono il mondo (la più plateale e ricordata è il magnifico Live Aid del 1985 contro la carestia etiope, concluso a Wembley con We Are The World e a Philadelphia con Do They Know It’s Christmas?), che all’epoca autorizzavano un certo ottimismo, possiamo forse dire che queste immaginarie previsioni di pace e cooperazione si siano avverate? Possiamo dire di vivere in un mondo perfetto e incantevole? Che cosa non ha funzionato? Dove si è sbagliato?

Sintetizzando, ci pare che sostanzialmente il meccanismo si sia inceppato anzitutto a livello logico. Se è vero che la globalizzazione è stata una conquista, per tutti, di nuove frontiere d’opportunità – a livello economico, commerciale, culturale – non bisogna però trascurare che non è un fenomeno irreversibile. È per certo difficilmente reversibile, ma non irreversibile. Una globalizzazione che si concretizzi come trionfo della banale e nuda libertà senza vincoli, senza valori, senza uno scheletro, che non poggia su basi solide, può correre il serio rischio di non essere al riparo da certe severe intemperie, e la storia ha già dimostrato che i conflitti duraturi, se non agevolmente risolti alla radice, portano le situazioni a deteriorarsi, e che una mera loro sospensione non equivale ad una soluzione del problema.

C’è stata invece, per anni – dico di più, c’è ancora, anche se quattro anni di amministrazione Trump hanno comunque lasciato il segno –, la cattiva abitudine di pensare, in modo puramente ideologico, che globalizzazione dovesse per forza significare globalismo (alcuni preferiscono dire “mondialismo”), e per globalismo si intende la cattiva pratica dell’annientamento di ogni differenza tra uomini, popoli e Stati al fine di fare del mondo un ammasso liquido (basta già l’ossimoro per trasmettere l’idea di delirio) di conformità. Ed è in parte quello che stiamo vedendo anche oggi, dopo anni di trionfi dell’internazionalismo di sinistra – clintoniano, obamiano, blairiano, ed eurobigotto – che ha travolto gli ideali conservatori e liberali degli anni ’80, spianando invece la strada ad un socialismo globale di fatto.

L’errore cardine è stato quello di pensare di poter imperniare il nuovo sistema sul valore dell’uguaglianza di trattamento. Se oggi ci troviamo a fare i conti con una crisi che sembra sempre sul punto di rottura definitivo, dove le democrazie liberali occidentali vengono minacciate dai regimi autocratici, è proprio perché per anni si è fatta la scelta della volontaria sottomissione nel nome dell’uguaglianza. Per anni si è negato che vi fossero contesti sottosviluppati, perché era politicamente scorretto dirlo: bisognava invece dire “ci sono culture diverse”. Abbiamo preso a trattare tutti gli Stati allo stesso modo e abbiamo visto dove questo ci ha portati. Ma la cosa grave è che questo modo di pensare, fondato su quel relativismo che è il vero male di questo secolo, si è talmente radicato nello spirito delle istituzioni internazionali che ora sarà estremamente difficile invertire la rotta.

Dopo questa lunga ma necessaria premessa, possiamo citare uno dei più monumentali esempi di questo delirio che scuote le fondamenta ideologiche di un internazionalismo realista in qualche modo votato ad una cooperazione basata sui principi (e non buona solo per i discutibili, pasticciati e variopinti loghi delle innumerevoli ed inefficaci micro-iniziative cui siamo abituati).

Tra il 2015 e il 2020, in virtù di questo modo di pensare, lo Stato d’Israele – unica democrazia in Medio Oriente – è stato oggetto di ben 112 risoluzioni presso l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, dove esiste una maggioranza automatica contro Israele. Nello stesso periodo, sono state approvate soltanto 5 risoluzioni contro l’Iran (teocrazia confessionale islamica sciita che lavora allo sviluppo della bomba nucleare, nella quale le donne non hanno diritti e gli omosessuali vengono impiccati), 6 contro la Corea del Nord (dove il lancio di missili balistici è subordinato all’umore del dittatore Kim Jong-Un) e 8 contro la Siria di Bashar al-Assad (su cui grava il triste bilancio di mezzo milione di morti e 11 milioni di profughi dall’inizio della guerra civile, anche – va detto – per una più che pessima linea d’azione portata avanti dall’Occidente).

Nel 2021 – anno che verrà ricordato anche per una lunga stagione di attacchi di Hamas contro lo Stato ebraico – alle citate 112 risoluzioni contro Israele se ne sono aggiunte altre 14, su un totale di 18 risoluzioni complessive approvate dall’Unga durante il corso dell’anno. Cioè quasi l’80 per cento. Le altre quattro sono state indirizzate ai già citati Iran e Corea del Nord, al Myanmar e all’attività russa in Crimea. Prendiamo atto dell’ignoranza dell’Onu sulla situazione dei diritti umani in Cina, Venezuela, Afghanistan, Cuba, Pakistan, Arabia Saudita eccetera.

Da Ginevra, non si è fatta giustamente attendere l’indignazione dell’ong di monitoraggio UN Watch, il cui direttore esecutivo, l’avvocato canadese Hillel Neuer, ha commentato così questo assurdo andazzo: “Diciamolo chiaramente: lo scopo di queste condanne totalmente sbilanciate è demonizzare lo Stato ebraico”. In compenso, il 30 dicembre, per chiudere l’anno in bellezza, l’Assemblea generale ha approvato – con 168 sì su 194 Paesi –, l’ennesima risoluzione sul “diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese”, che anche stavolta sembra essere l’unico diritto all’autodeterminazione di cui si abbia nozione presso il Palazzo di vetro e dintorni. Stranamente, anche l’unico che vada a collidere con l’esistenza in vita dello Stato di Israele e l’unico a proposito del quale sembri superfluo, all’establishment Onu, ricordare contestualmente ai diretti interessati il dovere di tenere fede a quegli accordi da loro stessi stipulati che impongono di smantellare le proprie strutture terroristiche prima di creare uno Stato a ridosso di Israele.

Non basta, il punto di caduta più grave è che la maggioranza contro Israele annovera ormai di regola tra i suoi illustri esponenti anche Francia, Germania e Italia. Le tre risoluzioni adottate a larga maggioranza il 1° dicembre, con al centro rispettivamente l’identità di Gerusalemme e dei suoi luoghi sacri, il destino della regione del Golan e le politiche di insediamento, hanno visto il delegato di Roma astenersi sulla seconda e votare convintamente sì alla prima e alla terza. A fronte di ciò, l’Unione delle comunità ebraiche italiane ha sollecitato il ministro degli affari esteri Di Maio ed il segretario generale della Farnesina Sequi ad adottare al più presto un cambio di passo, in coerenza con i principi più volte affermati nel corso degli incontri e con gli impegni presi in materia di contrasto all’antisemitismo in ogni sua forma: “Una posizione chiara, al riparo da ogni ambiguità e che soprattutto non presti il fianco a governi che hanno fatto della propaganda all’odio la cifra della loro azione diplomatica”.

In particolare, il grado di stoltezza e di ignoranza dei rappresentanti europei e segnatamente di quello italiano, si evince dal voto sulla prima delle tre risoluzioni, la quale prevede di qualificare l’area del Monte del Tempio con il solo nome arabo di al-Haram al-Sharif (“il Nobile Santuario”, più comunemente “Spianata delle moschee”). Non saprei dire se questo voto sia frutto dell’ignoranza oppure della convenienza (che poi, quale convenienza?) oppure di una sorta di “pilota automatico”; resta il fatto che con quel voto ci siamo tirati la zappa sui piedi. Come italiani, come europei, come occidentali e come cristiani.

Quel voto nega non solo i diritti degli ebrei a Gerusalemme, ma anche quelli dei cristiani. E nega precise verità storiche ed archeologiche. Cancellando la denominazione ebraica, stralcia interi capitoli del Nuovo Testamento. Qualcuno ha il coraggio di affermare che Gesù Cristo abbia camminato sulla Spianata delle moschee? Perché distruggere un elemento così forte dell’identità di un popolo? Che bisogno c’è di recidere per sempre il legame tra il popolo ebraico – e di conseguenza anche chi professa la religione cristiana – e i luoghi in cui ebbero origine queste fedi?

È incredibile come l’Occidente non si renda conto che la cancellazione di pezzi delle identità cristiana ed ebraica non c’entra con il rispetto della religione musulmana e con la legittima, forse, aspirazione palestinese ad avere un proprio Stato; semmai, è qualcosa che confligge con l’obiettivo di assicurare pari rispetto e pari dignità al credo islamico e alla causa palestinese Perché a nessuno sfugge – e sarebbe da stolti riservarsi di non ammetterlo – che senza il ruolo storico del cristianesimo (figlio del giudaismo) non sarebbe mai esistita la laicità dello Stato, che nel nostro Occidente plasmato proprio dalla diffusione del cristianesimo garantisce la coesistenza pacifica di più credi sui suoli nazionali. Perché il motto “Date a Cesare quel che è di Cesare” fu pronunciato da Gesù Cristo, non da Maometto.

Che piaccia o meno, la shari’a non può essere messa sullo stesso piano delle nostre moderne costituzioni, e quindi per la stessa ragione è francamente osceno non ammettere che soltanto la sovranità democratica israeliana potrebbe garantire la libertà di culto nell’area, non certamente le leggi fondamentaliste sunnite di Hamas, il cui statuto prevede espressamente la distruzione di Israele e l’eliminazione fisica di ogni ebreo nel mondo.

Non capire che si tratta di un problema non soltanto di Israele, ma dell’intero Occidente, è di estrema gravità. Ad ogni risoluzione Onu che colpisce lo Stato ebraico, a Teheran l’ayatollah Khamenei festeggia, compiaciuto di un Occidente che sempre più si dimostra un corpo malato. È forse questa la “globalizzazione” che immaginavamo? L’Occidente che si tiene da solo sotto scacco, preda delle sue illogiche prediche, del suo illogico egualitarismo fondamentalista, della sua political correctness, preda dell’odio per la sua storia e la sua identità? Era questa la “cooperazione internazionale” che desideravamo? Una cooperazione per l’oscurantismo e contro la libertà, una cooperazione che prevede di trattare l’Iran o la Cina come l’Islanda o la Svizzera, una cooperazione che non tiene conto di nulla se non dell’obbligo di assoluta e cieca fedeltà al dogma politicamente corretto del “ci sono culture diverse”? Ebbene sì, potrà anche darsi che “ci sono culture diverse”, ma allora forse quel Live Aid nel 1985 fu solo un riprovevole capolavoro di suprematismo occidentale.

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