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Madrid fortezza liberale: capolavoro Ayuso, prende tutto e le suona alla sinistra ‘buona e giusta’

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Il social-populismo si ferma alle porte di Madrid. Le elezioni anticipate nella comunità della capitale confermano la presidenza di Isabel Díaz Ayuso (PP), ma lo fanno consegnando al centrodestra una rappresentanza più che doppia rispetto al 2019 (65 seggi) e ridimensionando in maniera inappellabile il Partito Socialista (PSOE), al governo del Paese dal 2018. Per il sanchismo, complice anche un candidato inconsistente, il tonfo è stato storico: da 37 a 24 seggi, il peggior risultato di sempre, superato in numero di voti da Más Madrid, una formazione di sinistra di carattere locale. La scommessa di Pablo Iglesias salva i mobili in casa Podemos (10 rappresentanti) ma condanna a morte la sua proiezione politica personale e probabilmente anche il governo di coalizione con i socialisti: alle undici e mezza di sera annuncia in tono contrito le sue dimissioni e il suo addio alla politica. Si dice che lo attenda un futuro televisivo, lontano dalle istituzioni ma dai riflettori mai. La democrazia spagnola, comunque sia, respira sollevata.

Il capolavoro di Ayuso è tale che il numero di seggi ottenuti dal PP è superiore alla somma di tutte le forze di sinistra, rendendo così sufficiente l’astensione di VOX nel processo di investitura e scarsamente rilevante il suo appoggio nell’azione di governo. Sparisce Ciudadanos, forza centrista che governava fino a ieri con Ayuso, che ha pagato caro il tentativo di promuovere mozioni di sfiducia anti-PP in altre comunità autonome: il minacciato ribaltone ha portato alle elezioni che ne hanno decretato la scomparsa dallo scenario regionale (da 26 a zero rappresentanti). L’esecutivo a guida socialista si risveglia con la capitale del Paese come principale baluardo dell’opposizione e con Isabel Díaz Ayuso come icona dell’anti-sanchismo. Un avversario potenzialmente formidabile.

La prima lezione del voto madrileño è che gridare “fascista” a tutto quel che si muove e non indossa il colore rosso miseria elettoralmente non paga. Gli elettori si sono dimostrati più maturi del populismo del sedicente fronte “progressista” e hanno rifiutato la retorica da guerra civile con cui Iglesias e compagnia pseudo-rivoluzionaria avevano condotto la campagna: il No pasarán dimostra sempre un certo appeal, solo che ha funzionato al contrario. I cittadini hanno premiato la gestione Ayuso, soprattutto quella della pandemia, la sua politica di aperture controllate, la logica non punitiva nei confronti dell’economia e della libertà di movimento, l’equilibrio tra salute e rispetto dei diritti dei cittadini.

No, non era fascismo ma la promessa di ridurre l’imposizione fiscale post-pandemia, di deregolamentare, di aumentare le possibilità di scelta nel servizio pubblico. No, non erano fascisti i milioni di votanti che hanno fatto la coda ai seggi elettorali per dare la loro preferenza al centrodestra, ma persone normali che chiedono semplicemente di potersi muovere, lavorare, mandare i figli a scuola e sono stanche di sentirsi dire cosa devono fare, pensare, votare per essere considerate cittadini a pieno titolo. Una splendida dimostrazione di autosufficienza e di rifiuto degli abusi del potere, incarnati invece da una sinistra che ha sposato ad oltranza la mentalità da lockdown, secondo il lemma tanto consolidato quanto fallimentare del sorvegliare e punire. Il trionfo di Ayuso è soprattutto la proposta di un modello alternativo rispetto a quello che ha fatto della Spagna un buco nero economico e sanitario. Ed è proprio questo che spaventa il social-populismo al comando, la constatazione che il suo discorso omologatore possa essere rigettato in maniera altrettanto netta a livello nazionale.

Un brusco risveglio, insomma, reso ancora più brusco da quella che può definirsi una serata perfetta per un Partito Popolare che esce rinvigorito da una consultazione di carattere amministrativo dalle profonde ricadute politiche: in un colpo solo Isabel Díaz Ayuso si avvicina alla maggioranza assoluta, assorbe interamente l’elettorato centrista di Ciudadanos, relega VOX ad una posizione del tutto marginale nel governo della comunità, scardina la compattezza del fronte delle sinistre e obbliga Iglesias alle dimissioni. Uno scenario assolutamente impensabile fino a poche settimane fa.

La logica conseguenza a livello nazionale del voto di martedì sarebbe che Sánchez se ne assumesse le responsabilità politiche a livello di governo, di partito e di coalizione con Podemos. Ma non succederà: è nella natura del premier e della sinistra spagnola in generale afferrarsi al potere aumentando la carica dello scontro ideologico. Oltretutto l’uscita di scena di Iglesias, personaggio scomodo e ingestibile, lascia in teoria campo libero alle ambizioni egemoniche di Sánchez. Qualche mugugno si solleverà dalle consorterie socialiste sul territorio ma l’apparato politico-propandistico della Moncloa è ancora in grado di mettere a tacere i dissenzienti con una certa facilità. È chiaro però che da martedì sera il terreno sotto i piedi dell’esecutivo si è fatto più sdrucciolevole.

Quanto all’ex leader e co-fondatore di Podemos solo poche parole, giusto quelle che merita. Con lui se ne va la figura più perniciosa per la democrazia spagnola dalla morte di Francisco Franco: quinta colonna del chavismo in Spagna, finanziatosi “vendendo” consulenze al regime venezuelano, è l’uomo che ha reintrodotto e propagato a piene mani l’odio di classe in un Paese sempre alle prese con il retaggio della memoria storica. Interpellato in campagna elettorale su “libertà o comunismo, Pablo?”, rispondeva con aria di superiorità “comunismo, e che cacchio”. Il giorno delle elezioni gracchiava ai microfoni il solito mantra “antifascista” appellandosi con sicumera alla “volontà della maggioranza democratica”. Solo la sua, ovviamente. E la maggioranza ha parlato, mandandolo a casa, quella sì ben pagata dal dinero pubblico del suo triste settennato politico, da cui si svincola con un chalet con piscina, una moglie ministro e le tasche ben piene. Tutto tipicamente comunista, in effetti. Adesso affiderà alla propaganda televisiva il suo veleno ideologico, l’erba cattiva non muore mai. Ma la sua parabola politica sembra davvero al capolinea.

Di Ayuso i suoi avversari hanno detto di tutto: che con la sua politica di aperture aveva “diffuso l’epidemia”, che la sua comunità contaminava il Paese (falso, gli indici di contagio di Madrid sono in molti casi migliori di altre regioni che hanno adottato la politica del lockdown ferreo), che con lei avrebbe vinto il trumpismo, il fascismo, il turboliberismo, l’egoismo, l’estremismo, l’hanno chiamata idiota, ignorante, manipolatrice, l’hanno disegnata con una svastica tra le mani. Il repertorio di sempre, che la sinistra buona e giusta utilizza all’occorrenza contro chi non può sconfiggere sul campo. Per questo il suo trionfo vale doppio, triplo. Perché smaschera l’ipocrisia politicamente corretta dei padroni del pensiero e li costringe all’angolo, soli di fronte alla loro miseria morale. Lo slogan della sua campagna è un esempio lampante di successo di una strategia comunicativa: quel “socialismo/comunismo o libertà” non si riferiva certo all’instaurazione del soviet dei soldati e dei contadini ma interpretava alla perfezione il sentimento di una popolazione stanca di limitazioni, imposizioni e bugie ufficiali.

Anche se la stampa italiana vi racconterà la vittoria dell’estrema destra (uscita invece ridimensionata e marginalizzata dal voto), il risultato di martedì è una boccata d’ossigeno per una democrazia fiaccata dai colpi dell’antipolitica e dell’ideologia social-populista, un segnale importante di resistenza civica e un punto di partenza per una riscossa liberale contro gli eterni idolatri del Leviatano. Ma la strada resta ancora tutta in salita e piena di insidie.

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