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Tutto nel tritacarne globale: il “divide et impera” del Terzo Millennio

L’epoca del tutti-dicono-tutto-e-subito: oggi non conta più cosa-si-dice, ma quanto-si-dice. Ma l’estrema frammentazione del consenso popolare fa il gioco del potere

smartphone (Rai)

Divide et impera. Qualcuno, non si sa di preciso chi, lo disse. Altri, a iniziare da Luigi XI, lo ribadirono (“Diviser pour régner”), fino ad arrivare ai giorni nostri, caratterizzati dall’arte della divisione travestita da spirito di comunione, dal desiderio (impostoci) di ricominciare tutto daccapo nella negazione di quanto ritenevamo assodato e pressoché indiscutibile.

La politica della sostanziale divisione – che si parli di identità sessuale, politica green, sistemi statuali cambia poco – si basa sull’apologia della comunione universale per ottenere esattamente il contrario: una società estremamente parcellizzata, debolissima nelle tante celle del pensiero fluido e talmente variegato da richiedere sempre nuove etichette e acronimi per descriverle e catalogarle.

Resta l’eterna lotta tra il bene e il male, e quindi la cesura tra buoni e cattivi, e su questo niente di nuovo, ma il fiume della comunicazione ha ormai travalicato, esondando rovinosamente dalle corrose sponde edificate dalle religioni e dalla politica. Sorgono altresì, e dal nulla, contraddittorie e precarie insulae in flumine natae che i flutti della piena continuamente creano e distruggono nel breve corso di pochi anni.

Retaggio storico delle autorità religiose e delle magistrature, indiscussa era l’autorità necessaria a tracciare una linea netta verticale, a destra o sinistra della quale scrivere i nomi dei buoni o cattivi, giusti o ingiusti, morali o immorali – e chi più ne ha ne metta – per cui o si stava nella legalità e nella morale oppure se ne rimaneva fuori. Tutto rientrava nella consapevole scelta e nel libero arbitrio.

Da tale primato di civiltà millenaria, sembriamo oggi regrediti alla battaglia scomposta tra perfetti sconosciuti, quando non siano manifestamente dei macachi che menano colpi alla cieca brandendo la clava (e non dico la nobile spada) sulle teste confuse e surriscaldate dal Global Warming di chi, a qualunque titolo e per qualsiasi ragione, capiti nel ristretto raggio di quel metro scarso di legno nodoso che un irresponsabile di turno vorrebbe fare assumere al rango di somma vendicatrice della storia. Il senso del ridicolo, altro assente ingiustificato. Mettiamoci pure che qualsiasi esemplare dei sopraddetti macachi si sente in dovere di darti lezioni di civiltà e di dirti come devi comportarti e il cerchio si chiude.  

Le circostanze che maggiormente alimentano l’indecorosa lotta tra cavernicoli col telefonino sono piuttosto chiare. Tra queste, gioca un ruolo di assoluto rilievo la frammentazione del preteso sapere (disponibile anche a domicilio, con comode rate mensili) che, in qualche modo, legittima persino le più strambe teorie estemporanee individuali in nome dei sommi concetti di libertà e libera manifestazione di un pensiero al quale non viene più richiesto alcun livello minimo d’autorevolezza per costituire un punto di riferimento ideale.

Tritacarne globale

Tutto confluisce nell’immenso tritacarne della conoscenza globale di un Terzo Millennio che probabilmente nemmeno meritavamo. Sapendo tutto di tutti, e potendo chiunque esprimere qualsiasi concetto senza i freni della consapevolezza sociale che imponeva una preventiva  riflessione sull’opportunità di sciorinare al mondo intero qualsivoglia esternazione, anche se priva di costrutto e di conoscenza della materia, oggi non conta più cosa-si-dice, ma piuttosto quanto-si-dice.

Dosi da cavallo di benessere e sostanziale libertà, oltre alla indiscutibile comodità della vita occidentale, unitamente a una certa leggerezza del pensiero (come la poca certezza che vi siano poveri veri sul Pianeta) hanno minato le basi della società, come effetto collaterale – molto sottovalutato – del progresso.

Ormai sempre più sottoposta alla pericolosa pialla della mediocrità, questa società ha bruciato nel camino il senso della misura (preziosa eredità consegnataci dai nostri padri e da noi scialacquata allegramente), giungendo persino a farci ritenere preminente correre (come i doloranti forzati del running urbano con cuffiette d’ordinanza, qualunque tempo faccia) mettendo la riflessione nel cestino del desktop, subito dopo svuotandolo per evitare ripensamenti.

Se vi è un punto fermo in tutto ciò è l’effetto anestetico (fenomeno nuovo e poco studiato) che la troppa incalzante conoscenza di troppi fatti (oltretutto, non sempre veri) riversa sulle nostre coscienze. Diciamolo chiaro e tondo: tutto e niente ci spaventa ormai. Discepoli ripetenti e renitenti del Panta Rei e delle religioni orientali (meglio se in versione YouTube, ancora meglio se accompagnate da estremismo alimentare) ci aggiriamo sul palcoscenico come comparse, credendoci interpreti di gran pregio.

Come l’orchestra del Titanic, ma privi dell’eroico scopo di quei musicisti, continuiamo a suonacchiare e rozzamente danzare sul transatlantico che affonda. Probabilmente, ma spero di sbagliare, sarà proprio un inavvertito colpo di troppo sul pedale dell’acceleratore, più o meno consapevole, che abbiamo dato agli immutabili tempi della storia a farci sbattere di faccia contro l’abominio di una guerra vera e propria, finora risparmiataci dal prevalente peso del ragionamento (per lento che sia) rispetto alle decisioni immediate delle quali facciamo gran vanto per restare al passo con un progresso tecnologico che ci sta inesorabilmente prendendo la mano.

Leggevo, l’altra mattina presto, due magistrali articoli su questo nostro giornale: il primo, a firma di Franco Carinci, dal titolo: Università disorientate: dal genere fluido al genere unico, mentre il secondo, di Federico Punzi: L’Europa scopre il conto delle politiche green. Ma possono farci ancora più male. Li ho trovati scioccanti e assai centrati.

In altri tempi, leggere cose del genere avrebbe scatenato un putiferio e, quantomeno, scosso le coscienze di moltissimi. Volete scommettere che, fatta salva la riconosciuta capacità di quei giornalisti, ben più di un lettore alzerà le spalle rassegnato? Non escluderei nemmeno che non saranno pochi ad avanzare una teoria propria derivata da quanto detto e documentato da Carinci e Punzi. Non sia mai che si ritenga un articolo autorevole e credibile senza aggiungervi qualcosa di nostrano. È, proprio questo, un corollario inscindibile della teoria del tutti-dicono-tutto-e-subito.

Frammentazione del consenso

Nell’epoca in cui un post su Facebook di “fragolina98” che parli di Vladimir Putin o Donald Trump  ha ormai la medesima autorevolezza di un maestro del giornalismo, e persino lo sopravanzi in velocità di diffusione e per platea di fruitori, tutto è possibile e ciò entrambi i potentissimi della Terra lo sanno perfettamente.

È del tutto lecito pensare che buona parte del loro potere derivi, oltre a indiscutibili qualità di statista, dall’applicazione del principio del “divide et impera”. Non possiamo negare che l’estrema frammentazione del consenso popolare (che conta, eccome), in quanto basato prevalentemente su fattori di pura simpatia o antipatia mediatica, sia proprio quello a cui i decisori stiano mirando come bersaglio prevalente.

Ottenuto il consenso mediatico, il primo, determinante passo è compiuto. Nel calderone, una sciocchezza detta in più o in meno nemmeno più si nota. Perdita repentina dei consensi? Ce l’insegna la storia: imprigionamenti, morti e povertà raffreddano gli entusiasmi in modo definitivo. Dobbiamo (ancora) rischiare tutto ciò prima di smettere di ragionare in base ai dettagli e badare alla sostanza dei fatti (raccontatici da fonti attendibili) oppure andiamo avanti per frasi fatte?

Poco consapevoli che, proprio in questi anni, stiamo facendo la storia, fino a ieri relegata nei libri perché la pace globale era, in sostanza, garantita, probabilmente non ci rendiamo conto che ogni azione che contribuisca ad aumentare la confusione (ad esempio: trattando la guerra in Ucraina esattamente come quella a Gaza), in nome di un pacifismo disinformato e privo di soluzioni concrete e più ci divideremo in mille fazioni (guarda caso, capitanate dai partiti), non escludendo nemmeno quelle derivate dalle simpatie o antipatie televisive, rischieremo di constatare, di persona e pure in ritardo, quale fosse la vera posta in gioco.

Più ci eserciteremo negli sterili distinguo, tanto più potere daremo ai pazzi e criminali di varia natura. Non basterebbe forse attenerci a quei pochi principi universali che per secoli abbiamo affermato con retorica convinzione (rispetto dei confini e della sovranità di ogni Stato, principio di non aggressione reciproca, aiuto umanitario sottratto agli interessi di parte o, peggio ancora, personali, rispetto dei trattati internazionali e massimo impulso e aiuto alla diplomazia, per citarne solo alcuni)?

Vero che tutto finisce nel tritacarne globale. Ma quale nobile sostanza potrà fuoriuscire da detto attrezzo? Al massimo, sarà salsiccia, mica la Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo! E qualcuno, ne approfitta, statene certi.

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