Economia

L’Europa scopre il conto delle politiche green. Ma possono farci ancora più male

Da Bce a Goldman Sachs, rapporti allarmanti ma ancora troppo reticenti. “Net zero” deprime le nostre imprese, regalo alla Cina. Bluff auto elettriche

Ue Green Ursula von der Leyen ambientalismo © vencavolrab e urbazon tramite Canva.com

Le nostre industrie e imprese stanno già pagando un conto salatissimo in termini di calo della produttività a causa della transizione green. Su Atlantico Quotidiano lo sosteniamo da sempre. A lanciare l’allarme, di recente, è stata persino la Banca centrale europea – nonostante la presidente Christine Lagarde abbia più volte evocato un non meglio precisato contributo della politica monetaria agli obiettivi di decarbonizzazione, qualcosa che chiaramente esula e, diremmo, contrasta con la missione statutaria dell’istituto che è principalmente la stabilità dei prezzi.

L’allarme della Bce

Attenzione, però, perché mentre l’Ue fissa obiettivi di riduzione delle emissioni al 2035, 2040 e al 2050, contribuendo alla percezione del pubblico che si tratti di qualcosa di lontano nel tempo, in realtà l’impatto delle politiche green è già visibile, ne stiamo già pagando le conseguenze.

Non ci voleva certo un report della Bce per prevederlo, ma è comunque degno di nota che una delle principali istituzioni europee lo registri e lanci l’allarme: il piano Ue di taglio delle emissioni fino al fantomatico “net zero” è tra le principali cause dell’aumento dei prezzi energetici. E l’aumento dei prezzi energetici si traduce in maggiori costi dei fattori produttivi, rendendo le nostre imprese meno competitive.

Ovviamente gli analisti della Bce non osano contestare frontalmente la “bibbia climatista”, ricordano che i costi della transizione verde sono comunque inferiori ai costi dell’inazione e, osservano, “a lungo termine” nuove tecnologie ecologiche e digitali “potrebbero compensare” l’impatto negativo di oggi. Ma siamo nel campo degli auspici: “a lungo termine”, “potrebbero”

Il danno, oggi

La certezza oggi è l’impatto negativo sulla produttività delle imprese: “i maggiori costi dei fattori produttivi dovuti all’aumento dei prezzi dell’energia e delle emissioni di CO2 (il meccanismo di scambio delle quote ETS, ndr) potrebbero frenare la crescita della produttività a breve e medio termine”. Breve e medio contano, “nel lungo periodo siamo tutti morti”, diceva Keynes.

Misure come la nuova imposta sul carbonio alla frontiera (Cbam), il prelievo sulla CO2 emessa nelle produzioni extra-Ue, e il meccanismo ETS di scambio delle quote di emissione, hanno “effetti persistenti e negativi, anche se quantitativamente ridotti”. Ad avere un impatto maggiore sono i limiti regolatori alle emissioni.

Il piccolo dettaglio che Bce sembra trascurare nei suoi auspici è che se la desertificazione industriale avanza e le nostre imprese non riescono più a stare sui mercati perché meno produttive, non avremo alcuna nuova tecnologia miracolosa a compensare l’impatto negativo delle politiche green. La Bce scommette su un’ondata di innovazione e tecnologie verdi in grado di sostenere la produttività delle imprese del Vecchio Continente, ma il rischio concreto è che non ci siano più le imprese in grado di sviluppare quelle nuove tecnologie. È un circolo vizioso: si spera in un futuro tecnologico le cui fondamenta stiamo già minando oggi.

Regalo alla Cina

Se la transizione green deprime la produttività delle imprese europee, il contraltare, anche questo facilmente prevedibile e molte volte segnalato su Atlantico Quotidiano, è la straordinaria opportunità per la Cina, la cui crescita è sostenuta in misura decisiva proprio dalla possibilità di inondare il Vecchio Continente con i suoi prodotti “green” (tra virgolette, perché molto ci sarebbe da puntualizzare, e anche di questo su Atlantico abbiamo trattato, sui processi di estrazione delle terre rare necessarie alla produzione di batterie e pannelli, non proprio rispettosi dell’ambiente).

La crescita del Pil cinese del 5,2 per cento nel 2023 è stata infatti sostenuta in particolare dalla produzione di auto elettriche, batterie e pannelli solari, come riporta Sergio Giraldo su La Verità, uno dei pochi che aveva suonato per tempo tutti i campanelli d’allarme. Tanto che nei suoi recenti consessi il Partito Comunista Cinese ha deciso di puntare proprio sulle esportazioni “green” per centrare l’obiettivo di crescita del 5 per cento nel 2024.

Di pari passo, insieme all’economia cinese, crescono anche produzione, importazione e consumi di carbone, petrolio e gas, il che dimostra il paradosso della nostra transizione green: stiamo massacrando il nostro sistema produttivo solo per veder trasferire le emissioni di CO2 dall’Europa alla Cina, senza alcun beneficio netto a livello planetario. Non stiamo tagliando le emissioni, le stiamo delocalizzando come abbiamo fatto con la manifattura e i posti di lavoro.

Il panico tedesco

Gli Stati Uniti sono più avanti nella consapevolezza di quanto sta accadendo. Persino la non sveglissima amministrazione Biden sta correndo ai ripari e con l’Inflation Reduction Act ha posto ostacoli alle esportazioni cinesi di tecnologie green, tanto che Pechino ha aperto una controversia al WTO, l’Organizzazione mondiale del commercio, denunciando una discriminazione verso i suoi prodotti che sarebbe contraria agli accordi. Per non parlare di Donald Trump, che promette misure ancora più drastiche, come dazi del 100 per cento sulle merci cinesi.

Anche se non mancano segnali di risveglio dall’incubo green – una moderazione nella legislazione Ue che sembra però un ripiegare tattico in vista delle elezioni di giugno – in Europa siamo ancora lontani da misure simili. Nonostante l’industria europea in settori come automotive e fotovoltaico abbia ormai fiutato la minaccia e sia ormai entrata in modalità panico, Bruxelles non intende procedere con dazi e barriere. Perché? Perché l’industria tedesca è sì spaventata dall’invasione dei prodotti “green” cinesi, ma lo è anche delle possibili rappresaglie di Pechino.

Il che ci conferma che siamo già caduti nella dipendenza dalla Cina come siamo caduti nella dipendenza dal gas russo. L’industria tedesca può permettersi – oggi – il derisking di cui tanto si riempiono la bocca i vertici di Bruxelles. È pronta a riportare indietro le produzioni?

A Goldman non piace più l’elettrico

La frenata sulle auto elettriche ormai non è più un mistero. Ricordiamo le profezie di Mr. Toyota (“non arriveranno a dominare il mercato”) e i tagli di Volkswagen, ma ora registriamo la marcia indietro anche di Goldman Sachs, che in un recente rapporto riconosce la crisi delle EV e suggerisce di puntare sull’ibrido: “Il nostro scenario pessimista su un declino su base annua delle vendite di EV nel 2024 è divenuto più realistico”. L’Europa ha mostrato segnali di stagnazione dall’inizio dell’anno a causa di tre fattori, secondo Goldman: i costi, le ambiguità delle politiche governative, la scarsità di infrastrutture di ricarica rapida.

A noi il rapporto di Goldman sembra ancora troppo reticente. I sussidi statali non possono far miracoli, è evidente una certa saturazione: i pochi che potevano permettersi l’auto elettrica, se la sono comprata. Agli altri non basteranno mai gli incentivi ed è qui che sono pronti a invaderci i marchi cinesi: ci conviene? Una moltiplicazione delle stazioni di ricarica rapida sarebbe incompatibile con le capacità della rete.

Se un certo risveglio è in atto, possiamo farci ancora molto male. Il bando delle auto a benzina e diesel è praticamente dietro l’angolo ed è chiaro che l’auto elettrica in Europa o sarà cinese, o non sarà. E un lievissimo sospetto si insinua. Chi pagherà per gli errori strategici commessi dall’industria europea per inseguire le sirene green della politica? I contribuenti, temiamo, come sempre.

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