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Paradosso Africa: tutti vantano programmi di aiuti, ma intanto si buttano milioni di vaccini

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Dal 15 al 20 novembre il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha svolto il suo primo viaggio in Africa. Nel corso dei colloqui con le autorità dei Paesi visitati – Kenya, Nigeria e Senegal – Blinken ha illustrato le linee politiche per l’Africa della nuova amministrazione statunitense. “Troppe volte i Paesi africani sono trattati come partner minori o peggio – ha detto durante l’incontro con il presidente nigeriano Muhammadu Buhari – è ora di considerare l’Africa come un soggetto, non come un oggetto di scelte geopolitiche”. Senza citarla, ma chiaramente riferendosi alla Cina, “troppo spesso – ha aggiunto – gli accordi internazionali in materia di infrastrutture sono poco trasparenti, coercitivi. Caricano i paesi di debiti ingestibili. Sono deleteri per l’ambiente. Non sempre vanno a beneficio delle popolazioni. Noi ci comporteremo diversamente. Gli Stati Uniti saranno trasparenti e sostenibili”.

Partito Blinken il 20 dal Senegal, il 29 e 30 novembre la capitale senegalese Dakar ha ospitato il vertice di cooperazione Cina-Africa, un incontro che si svolge ogni tre anni a partire dal 2000. Alla vigilia del summit il Consiglio di Stato cinese aveva diffuso un documento programmatico intitolato: “Cina e Africa nella nuova era: una partnership tra pari”. “Nella lotta per la liberazione nazionale e l’indipendenza – si legge nell’introduzione – la Cina e i paesi africani si sono aiutati a vicenda (…) sostenendosi nel perseguimento dello sviluppo economico. Entrando nella nuova era, il presidente Xi Jinping afferma i principi della politica cinese per l’Africa: sincerità, risultati concreti, amicizia e fiducia”.

Al di là delle dichiarazioni di intenti, sembra tuttavia che l’immagine dell’Africa continui a essere quella di un continente in costante bisogno di assistenza, di doni, aiuti, incentivi, prestiti che i donatori decidono come, quando e in che misura concedere. La Cina, nel corso del vertice, ha assicurato che donerà all’Africa, come già annunciato nei giorni precedenti, un miliardo di dosi di vaccini contro il Covid-19: 600 milioni arriveranno direttamente e il rimanente verrà fornito sotto altre forme, ad esempio investendo in centri di produzione di vaccini in Africa. Inoltre ha confermato che nei prossimi anni sarà aperta una linea di credito pari a 10 miliardi di dollari.

Blinken da parte sua ha garantito il proseguimento della Prosper Africa Initiative, creata per incrementare commercio e investimenti, la Growth and Opportunity Act, meglio nota come AGOA, voluta dal presidente Clinton per consentire accesso preferenziale al mercato Usa da parte di Paesi in via di sviluppo, e il Build Back World, una iniziativa avviata nel giugno del 2021 dai Paesi del G7 che fa concorrenza alla Cina nel campo dello sviluppo di infrastrutture. Inoltre ha promesso che il suo Paese donerà oltre 1,1 miliardi di dosi di vaccini anti Covid-19, in gran parte a Paesi africani, e contribuirà a far sì che gli africani siano presto in grado di fabbricare i vaccini di cui hanno bisogno.

Se saranno diversi d’ora in poi i rapporti di Stati Uniti e Cina con l’Africa resta da vedere. Quanto all’Italia, anche il nostro Paese sostiene di voler fondare su una partnership paritaria le relazioni con il continente. “Il rapporto con i Paesi del Continente e le sue organizzazioni – si legge nell’introduzione a “Il partenariato con l’Africa”, testo programmatico del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale – è oggi basato su una partnership paritaria, orientata ad uno sviluppo condiviso e ad affrontare insieme le molteplici sfide globali, superando così la tradizionale visione donatore/beneficiario”. L’Italia, ricorda inoltre il Ministero degli affari esteri, “ha da sempre svolto un ruolo apprezzato e riconosciuto a favore del Continente africano, contribuendo in maniera determinante a far mobilitare risorse maggiori verso l’Africa, con una serie di iniziative e proposte”. Deve continuare a farlo “nei diversi fora internazionali, in primis le Nazioni Unite e l’Unione Africana, al fianco dell’UE e dei suoi singoli Stati membri”.

Proprio per questo ruolo che l’Italia vanta di svolgere è importante porre finalmente alcuni interrogativi fondamentali a proposito dei progetti di aiuto e sviluppo per l’Africa, siano essi ideati e realizzati da stati, agenzie Onu, organizzazioni non governative, fondazioni private, nell’ambito della cooperazione bilaterale o multilaterale.

La prima domanda riguarda la effettiva realizzabilità dei progetti internazionali di cooperazione. Blinken, Xi Jinping hanno parlato di iniziative per miliardi di dollari come se non sapessero o ritenessero irrilevante il fatto che i 54 stati del continente, quasi senza eccezioni, sono alle prese con serie crisi sociali e politiche, oltre tutto in molti casi persistenti; 12 stati africani sono sotto la minaccia jihadista. Gruppi armati affiliati ad al Qaeda o allo Stato Islamico infestano e controllano vaste estensioni dei loro territori nazionali. Sei altri Paesi hanno subìto in passato attacchi islamisti e potrebbero essere colpiti di nuovo. Lo scontro politico e sociale, già di per sé violento in Africa, è degenerato in conflitto armato, oltre che in Libia, in sei Paesi, in tre dei quali negli ultimi 12 mesi il governo è stato deposto con un colpo di stato militare (per due volte in Mali).

La crisi del Covid-19 ha dimostrato, e non per la prima volta, quanto sia difficile realizzare un programma di aiuti in tali contesti. L’Africa ha il tasso di vaccinazioni più basso del mondo. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità a fine ottobre solo il 6 per cento degli africani erano stati vaccinati. Ma questo non dipende soltanto dal fatto che i governi africani non ricevono dosi di vaccino sufficienti, come sostiene l’Oms. Nel continente, che ha poco più di 1,3 miliardi di abitanti, sono già arrivati 384 milioni di dosi. Il Botswana, che ha 2,3 milioni di abitanti, ha ricevuto circa 2,4 milioni di dosi; il Sudafrica ne ha ricevuti 32,5 milioni su una popolazione di circa 40 milioni di adulti. La lentezza delle campagne di vaccinazione dipende dall’estrema carenza di personale sanitario e dalla mancanza di infrastrutture.

Ma un ostacolo ulteriore sono i territori fuori controllo, resi insicuri e impraticabili dalla guerra, dalla presenza di jihadisti, trafficanti, contrabbandieri, gruppi armati antigovernativi. Il risultato è che diversi stati lasciano scadere i vaccini e li devono distruggere (insieme a quelli inutilizzabili perché conservati male). Il Sudan del sud ad aprile ha distrutto 59 mila dosi scadute e ne ha restituite 72 mila. Il Malawi ne ha lasciate scadere e gettate via quasi 20 mila. La Repubblica democratica del Congo aveva ricevuto 1,7 milioni di vaccini all’inizio di marzo 2021. Due mesi dopo aveva vaccinato solo mille persone e ha restituito 1,3 milioni di dosi. La Nigeria nei prossimi giorni dovrà distruggere addirittura un milione di dosi scadute.

I risultati conseguiti da programmi di aiuti umanitari e di cooperazione allo sviluppo costati mesi e anni di lavoro e milioni di dollari possono, ed è successo spesso, essere annullati o resi inservibili in poche settimane da una crisi politica, una guerra, una rivolta armata, l’avanzata del jihad, e anche da disastri naturali che nessuno si è preoccupato di prevenire. La seconda domanda dunque è se sia prudente e giusto continuare a investire così tante risorse umane, finanziarie e tecnologiche quando in un Paese mancano fondate garanzie di stabilità politica e sociale.

Una terza domanda è come mai l’Africa, 60 anni dopo che, terminata la breve epoca coloniale europea, i suoi Paesi sono diventati indipendenti, continui a essere talmente povera da aver bisogno di aiuti e prestiti agevolati per realizzare i suoi progetti umanitari e di sviluppo. Il prodotto interno lordo del continente cresce costantemente da 25 anni. Dal 2010 al 2019 la crescita media annua del Pil della Repubblica democratica del Congo, ad esempio, è stata del 6,1 per cento, quella del Rwanda del 7,6 per cento, del Niger del 5,9 per cento, del Tanzania del 6,7 per cento.

Soltanto il Pil di cinque stati africani è diminuito, quattro dei quali produttori di petrolio. Il caso della Guinea Equatoriale dà la risposta alla terza domanda. Il Paese è spesso citato quando si parla di “paradosso” o “maledizione” della ricchezza. È uno dei dieci maggiori produttori africani di petrolio e, da quando negli anni ’90 del secolo scorso sono stati scoperti grandi giacimenti di petrolio e di gas naturali, ha il Pil pro capite più alto del continente: 7.143 dollari annui nel 2020 (un massimo di 22.942 dollari nel 2008). Tuttavia è 146° nell’Indice di sviluppo umano dell’Undp e ha una speranza di vita alla nascita di 58,7 anni (oltre 20 anni meno di quella dei Paesi ad alto reddito). La spiegazione di questo paradosso è che il presidente della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang Nguema e i suoi famigliari si considerano i padroni del Paese e delle sue ricchezze e vi attingono senza ritegno, scrupoli e limiti, lasciando gran parte degli 1,4 milioni di abitanti in povertà. Nguema è il capo di stato africano da più tempo in carica (ha preso il potere con un colpo di stato nel 1979) e uno dei più spregiudicati e brutali. Suo figlio Teodolin, che detiene la carica di vicepresidente, sciala milioni di dollari concedendosi lussi sfrenati e stravaganti.

La Guinea Equatoriale è un caso esemplare. Tuttavia tanti altri africani che occupano cariche governative e amministrative si comportano come gli Nguema. La corruzione è diffusa ovunque nel continente. Come dicono in Nigeria, è diventata uno “stile di vita” che la maggior parte dei governi non desiderano, né possono, contrastare. Il più recente scandalo di grandi proporzioni risale al 19 novembre. Una fuga di dati da una banca ha rivelato che le imprese possedute da famigliari e amici dell’ex presidente della Repubblica democratica del Congo, Joseph Kabila, in carica dal 2001 al 2019, hanno dirottato milioni di dollari di fondi pubblici nei loro conti bancari. Peraltro già nel 2012 si diceva che Kabila avesse stornato dalle casse pubbliche 5,5 miliardi di dollari. Nel 2002 una commissione dell’Onu aveva denunciato lo sfruttamento, il saccheggio delle immense risorse minerarie del Congo da parte delle leadership al potere. “Noi siamo congolesi – era stata la risposta ufficiale dei politici accusati – e quindi possiamo fare quel che vogliamo del nostro Paese, le sue risorse ci appartengono, non si può dire che le stiamo saccheggiando”.

Sarebbe bastato prestar fede ad autori come Axelle Kabou, “E se l’Africa rifiutasse lo sviluppo?”, 1991, Dambisa Moyo, “La carità che uccide”, 2009, Michela Wrong, “It’s our turn to eat”, 2010; e, risalendo nel tempo, Jacques Giri, “L’Africa in crisi”, 1986, Jacques Dumont, “L’Afrique noire est mal partie”, 1961. Sembra che nessuno, tra le persone che contano, lo abbia fatto.

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