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Perché la caduta del Muro di Berlino merita di essere celebrata, senza se e senza ma

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Il Muro di Berlino incomincia ad essere diffusamente rimpianto. Vuoi per provocazione, cinismo e ideologia, le poche volte che si ricorda la caduta del Muro, la meno celebrata delle ricorrenze di quest’anno (e anche questo silenzio vuol dir molto), è sempre seguito da un “sì, però…”. È un atteggiamento che non riguarda solo la sinistra nostalgica, si badi bene, ma anche ampi settori della destra. Che sicuramente fanno più notizia, proprio perché la loro tardiva conversione alla nostalgia del Muro è l’opposto del loro atteggiamento pre-1989. Non si tratta di un generico rimpianto delle dittature comuniste, crollate sotto le macerie di quel confine in cemento, ma di un rimpianto di un mondo “stabile”, diviso in blocchi. Possibilmente, del mondo al di qua della cortina di ferro, perché di quello al di là abbiamo ancora poche e confuse idee. Il mondo post-bipolare, già nei primissimi anni 90, era subito apparso come caotico nella più ottimistica delle analisi, o pericoloso nella più pessimistica. Pare che, a giudicare dal mainstream, il capitalismo, dopo il 1989, sia diventato particolarmente selvaggio e poi fallimentare. Come se fosse l’Urss, col suo blocco di regimi satelliti a garantirne la stabilità. Quindi, se il mondo comunista è finito, quello capitalista sta peggio di prima.

Ma è vero? Sostanzialmente no. Si tratta di una suggestione. In primo luogo, lo sviluppo del capitalismo e delle sue dinamiche più vistose (globalizzazione, internazionalizzazione della finanza, rivoluzione informatica e poi robotica) non dipende necessariamente dalla caduta del Muro. La trasformazione era già in atto, il mercato cinese, che oggi è sulla bocca di tutti, ha incominciato ad aprirsi dieci anni prima della caduta del Muro di Berlino e comunque riguarda la Cina, immune, dopo il massacro Tienanmen, alle rivoluzioni anti-comuniste. L’istituzione dell’Organizzazione Mondiale del Commercio è invece avvenuta sei anni dopo la caduta del Muro e non ha riguardato subito i Paesi che sono usciti dal comunismo. La globalizzazione ha sicuramente vissuto un’accelerazione nel momento in cui è finita la contrapposizione ideologica fra blocchi. Ma se vogliamo vedere cosa realmente è cambiato dopo il 1989, dobbiamo riportare lo sguardo ai Paesi dell’Est europeo che facevano parte dell’ex Patto di Varsavia, dell’ex Urss e al massimo della ex Jugoslavia, la cui dissoluzione è avvenuta immediatamente dopo le (e per effetto delle) rivoluzioni di velluto. E vediamo tutti Paesi usciti dalla povertà e dalla dittatura, per approdare a una moderna democrazia liberale con un mercato molto competitivo.

Secondo l’Index of Economic Freedom (indice della libertà economica), fra i Paesi dell’ex Patto di Varsavia e dell’ex Urss e dell’ex Jugoslavia ci sono alcune delle economie più libere d’Europa: Estonia, Lituania, Repubblica Ceca e Lettonia. Nella fascia appena inferiore dell’indice, quella dei Paesi “moderatamente liberi”, troviamo altri Paesi che comunque risultano più liberi del nostro: Bulgaria, Romania, Polonia, Kosovo, Albania, Ungheria, Slovacchia e Serbia. Libero non vuol dire necessariamente ricco. Gran parte di questi Paesi sono ancora fra i più poveri d’Europa. Ma i dati del loro sviluppo sono molto più incoraggianti rispetto ad un’Europa occidentale quasi del tutto stagnante. Fra i Paesi con la maggior crescita del Pil, dopo i record di Irlanda e Malta, troviamo infatti Polonia, Ungheria, Lettonia, Slovenia, Romania, Slovacchia, Estonia, Lituania, Bulgaria e Repubblica Ceca. Tutti Paesi ex comunisti che si sono liberati nel 1989 e negli anni immediatamente successivi.

Vista a posteriori, dunque, la trasformazione del mondo comunista in un mondo democratico e capitalista ha avuto successo. Ma non solo: si tende a dimenticare che la Germania era divisa e che l’assorbimento dell’Est comunista era considerato un’impresa folle. Non è facile anche solo immaginare cosa voglia dire adottare 16 milioni e mezzo di cittadini che non hanno mai lavorato al di fuori dello Stato, la cui vita era pianificata da cima a fondo dalle autorità, isolati dal resto dell’Europa, educati secondo i dogmi del marxismo. Eppure, a soli 30 anni di distanza, la Germania è la prima potenza in Europa e una delle maggiori potenze economiche nel mondo. Chi teme la sua rivalità commerciale sicuramente storcerà il naso e accennerà ad un rimpianto di quando c’era il Muro. Ma è meglio una guerra commerciale o la Guerra Fredda (con rischio di escalation nucleare)? Meglio un rivale libero o un vicino schiavo?

Quelli che non festeggiano la caduta del Muro danno poi per scontato che il mondo in cui viviamo sia più pericoloso e misero rispetto a quello precedente al 1989. A prescindere dal fatto che, appunto, la caduta del Muro di Berlino non è la causa principale della trasformazione del capitalismo… oggi viviamo decisamente meglio rispetto a 30 anni fa. È difficile dirlo in questa piccola e disgraziata realtà chiamata Italia, che è peggiorata rispetto al passato. Ma non esiste solo l’Italia. In tutto il resto del mondo, i due dati principali che contraddistinguono l’ultimo trentennio sono: la riduzione drastica della povertà e della violenza. Secondo le statistiche della Banca Mondiale, nel 1990 1 miliardo e 850 milioni di persone vivevano sotto la soglia di povertà (fissata convenzionalmente a 1,9 dollari al giorno). Oggi sono 767 milioni, dunque meno della metà. In proporzione, i poveri del 1990 erano il 35 per cento della popolazione mondiale, oggi il 10,7 per cento. Quanto alla violenza, nonostante il terrorismo e le guerre civili a cui assistiamo soprattutto nel Medio Oriente, non dobbiamo dimenticare che questo è l’unico periodo della storia umana in cui, per più di tre generazioni, non si è combattuta una sola guerra fra grandi potenze. E dopo il 1995, anche i crimini di massa interni ai confini sono diminuiti, per numero di vittime e frequenza. Numeri alla mano, Steven Pinker, scienziato cognitivo canadese, dimostra quanto siamo portati a deformare, in senso peggiorativo, la violenza del mondo in cui viviamo. Negli ultimi trent’anni, non solo si è ridotto il numero di morti prodotti dalla violenza di Stato, ma anche il numero di vittime di omicidi.

Siamo dunque di fronte ad un atteggiamento pessimista che è del tutto fuori luogo. La caduta del Muro di Berlino è un evento che merita di essere festeggiato, senza se e senza ma.

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