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Il pericolo per la libertà? Viene dalle università occidentali

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C’è un luogo in cui la libertà di parola e di pensiero è più minacciata: l’Università. Non stiamo parlando della Turchia, dell’Iran o della Cina. Erdogan, gli ayatollah e i dirigenti del Pc (che starebbe per Partito comunista) non fanno che applicare i vecchi canoni: nelle università non si può criticare il potere politico e quello religioso, e non lo possono fare fuori dalle sue mura neanche docenti e studenti, altrimenti si viene espulsi dall’ateneo e poi si finisce in galera. No, la minaccia alla libertà di cui vogliamo parlare è annidata nelle università del mondo occidentale, laddove essa è, storicamente, cresciuta. Stiamo parlando delle università americane e inglesi, le terre del free speech. Ma vogliamo anche denunciare l’esondazione di tale liquame sul continente e anche da noi, in Italia.

Non vale soffermarsi su singoli e tantissimi casi in cui, in atenei prestigiosi d’oltre oceano e d’oltre manica sono stati intimiditi, minacciati, coartati, quei docenti che osavano criticare il potere, a cui sono stati impediti convegni, e chiuse iniziative, riviste, blog, corsi: fino a chiedere il loro licenziamento, che in alcuni casi è stato ottenuto. Di queste tristi vicende la stampa italica, sempre pronta a trovare la pagliuzza nella trave del nemico e invece assai conciliante con l’amico, tace: ecco perché solo Giulio Meotti su Il Foglio, Francesco Borgonovo su La Verità, e Martino Loiacono su Atlantico, ci informano regolarmente su questa nuova caccia alle streghe. E’ davvero sconcio e intollerabile che Trump e May reprimano la libertà degli atenei! Alt, Wait. La caccia alle streghe di cui stiamo parlando non la promuovono i governi. Semmai, a esser vittima dei nuovi Inquisitori (senza offesa per quelli storici, che erano fior di figure) sono oggi proprio i docenti e gli studenti che simpatizzano per il governo, nel caso americano per Trump. La realtà rovesciata: una volta venivi perseguitato se eri contro il potere politico, oggi se lo difendi.

Il presidente americano incarna il governo federale e anche il potere politico, certo. Ma c’è un altro potere, assai più influente e pericoloso perché pervasivo e non sottomesso a nessuna volontà democratica: il potere dei mandarini della cultura, che hanno occupato in maniera militare negli ultimi decenni i media, i giornali e le università. Gli eredi del commissario politico di staliniana e maoista memoria (molti dei quali maoisti in gioventù) non credono più nel comunismo come i loro padri ma nel progressismo liberal globalista: una fede secolarizzata, una religione politica che non ammette eresia e deviazione dalla linea. Si definiscono liberal o liberali ma la matrice dei loro ragionamenti e delle loro azioni renderebbe orgogliosi Stalin e Mao. I novelli mandarini liberal sono totalitari, ma liberali. Che il totalitarismo non fosse finito nell’Europa occidentale nel 1945 e in quella orientale nel 1989 e che tale modus ragionandi potesse convivere con una forma degenerata di liberalismo, l’hanno spiegato figure diverse come Hannah
Arendt, Claude Lefort e soprattuto Augusto Del Noce. Ma ai loro tempi il totalitarismo liberale era solo in nuce e gli
studenti e i professori che minacciavano chi non la pensava come loro si rifacevano ad altre tradizioni: Lenin, Stalin, Mao.

La storia è un insieme di processi ciclici, in cui dobbiamo sempre riconoscere gli elementi nuovi presenti in ogni ciclo. E se le contestazioni di fantomatiche organizzazioni studentesche, le complicità dei professori, la vigliaccheria o la malafede dei direttori e dei rettori si erano già viste negli Usa e in Europa occidentale negli anni sessanta e settanta, sbaglierebbe chi volesse interpretare la nuova caccia alle streghe come un semplice coda del passato. Oggi i novelli Inquisitori sono mossi dal culto della identità etnica e di genere, dalla religione politica multiculturalista e dal feticismo dei diritti, che impongono il rifiuto della storia, la battaglia contro la cultura occidentale, giudaico-cristiana, e la sua parificazione a quella dei popoli “sfruttati dall’imperialismo” (quindi Dante o Shakespeare valgono come oscuri poeti africani). E naturalmente la battaglia contro il fascismo, dove fascista è naturalmente chiunque non condivida i precetti della religione politica multiculturalista.

Chi aveva capito dove si stesse andando fu il saggista, e studioso universitario di letteratura, Alain Bloom già nel 1987, con il formidabile “The closing of the American Mind”. Per anni abbiamo creduto (o ci siamo illusi) che la dittatura dell political correctness fosse un caso americano, e pure limitato. Invece non è così. Oggi le facoltà umanistiche di buona parte degli atenei Usa sono dominate da questa dittatura, a cui partecipano, volonterosi o meno, convinti o meno, come carnefici i docenti (se fino a vent’anni fa un professore su tre si definiva conservatore, oggi siamo a uno
su dieci). I campus son diventati scuole non di pensiero, ma di dittatura sul pensiero.

Il morbo si è esteso da anni nel Regno Unito, anche per ragioni economiche: molte cattedre sono finanziate da Paesi delle monarchie del Golfo, che però chiedono che l’Islam sia rispettato. Il che vuol dire concretamente, censurare Shakespeare e impedire che qualcuno possa scrivere (persino in una sede scientifica) che il colonialismo britannico in fondo qualche merito positivo l’ha avuto. Ma il controllo occhiuto dei vari Miniluv che devono fare rispettare
i principi dell’IngSoc fissati da The Party (nelle università rettori e direttori di dipartimento) si estende anche al di fuori delle mura degli atenei: e invade la vita del docente, controllato in quello che scrive su giornali, social, e persino cosa riporta in conservazioni private! In diversi casi docenti di atenei americani e inglesi sono stati ripresi dai loro cosiddetti “superiori” (che poi non lo sono affatto) perché in una cena privata avevano criticato, chessò, il differenzialismo femministico o peggio avevano confessato di avere votato per Trump. Grazie alla delazione di qualche collega presente a tavola, che ha poi denunciato il misfatto alla organizzazione studentesca, fattasi quindi sentire presso le sfere che contano. “Le vite degli altri”, ma non siamo nella Ddr. Siamo a Princeton, a Oxford, a Parigi, e domani pure a Roma o a Bologna.

Naturalmente, come il Partito di “1984”, anche il nuovo regime del potere totalitario liberale ha fissato delle regole. Sono i codici etici. Norme generiche, regole di condotta a cui il docente dovrebbe attenersi, sempre e comunque, in aula e in biblioteca, nei rapporti con gli studenti ma anche con i suoi vicini di casa, e magari pure all’interno della propria coscienza. Sì, perché ci vogliono convincere che il docente, come un sacerdote, rappresenterebbe l’ateneo e la
sua “onorabilità” ovunque, magari anche quando egli si reca alla toilette di casa propria. Cosa dicono queste norme, che un po’ in effetti ricordano lo Stato etico? Che il docente non deve manifestare razzismo, sessimo, pregiudizi alcuni, e deve dimostrare fedeltà alla democrazia. Il problema però è: chi decide se quanto detto o scritto sia razzismo? Quanto alla fedeltà alla democrazia, vogliamo distruggere più di duemila anni di pensiero politico di critica della democrazia? Di Platone non si deve parlare o lo si deve descrivere come il nemico della società aperta, secondo la caricatura che ne
diede Popper? Risposta alle tre domande: a decidere cosa sia razzismo e sessismo sono i mandarini, mentre alle altre due domande il responso è un semplice: sì!

Quanto alla norma, essa è generica perché c’è sempre qualcuno che vuole applicare la massima giolittiana: le regole si applicano ai nemici, si interpretano per gli amici. E infatti spesso esse vengono utilizzate per liberarsi di colleghi sgraditi per ragioni di cabale e di piccolo potere accademico. Ma è questione secondaria. La maggior parte dei nuovi Inquisitori del politicamente corretto crede davvero in ciò che fa. Il loro afflato è genuino; pensano seriamente di stare portando la Luce e il Bene sulla Terra, questi novelli gnostici. Proprio come erano in buona fede Stalin, Mao, Pol Pot.

L’epidemia si sta espandendo. In Francia i casi sono già all’ordine del giorno. E in Italia? Anche qui si moltiplicano i segnali preoccupanti. In alcuni atenei si comincia a contestare i docenti perché non sottomessi al culto dei diritti, del gender, della “diversità”, temi su cui si cominciano a organizzare corsi. Così come alcuni Paesi del Medio Oriente prendono anche da noi a finanziare cattedre, che ovviamente non esaltano il lgbitismo, anzi. Ma promuovono un altro tipo di intolleranza, non molto diversa da quella degli adepti della correttezza politica. In questa fase, fautori del multiculturalismo e sostenitori della sharia e della sunna (che in arabo significa appunto codice di comportamento, come i codici etici degli atenei) vanno tatticamente a braccetto. Poi, quando grazie all’appoggio dei primi, i secondi avranno vinto, essi cominceranno a tagliare la lingua ai mandarini del multiculturalismo – in alcuni atenei britannici sta già accadendo.

La minaccia all’Occidente alberga anche e forse soprattutto nelle università occidentali. Chiunque vi si trovi, docente e studente, dovrebbe capire che la libertà di parola e di pensiero è il primo dei nostri valori. E che essa è minacciata dai nuovi mandarini del Big Brother. Quindi non dobbiamo concedere loro nulla, in nome di una malintesa volontà di dialogo o di quieto vivere, e dobbiamo combatterli anche se sono solo all’inizio. Perché una volta che la Bestia sarà cresciuta, tenderà a divorarci anche qui, come sta facendo in America e in Inghilterra.

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