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Di Maio già alla terza vita politica: ecco tutte le giravolte più clamorose (e rimosse)

Atlantista per caso e draghiano per necessità, gaffe e doti da trapezista, Giggino ha fatto breccia nel cuore dell’establishment che disprezzava

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Il giorno in cui un trionfante Luigi Di Maio, allora vice premier e ministro dello sviluppo economico, si affacciò al balcone per annunciare l’abolizione della povertà sembra lontano anni luce. Eravamo nel settembre 2018, l’inquilino di Palazzo Chigi era l’avvocato del popolo, alias Giuseppe Conte, e l’ibrida alleanza tra Movimento 5 Stelle e Lega guidava il Paese.

Un’altra epoca, in cui l’allora capo politico della formazione grillina era ancora ebbro della notevole affermazione elettorale di qualche mese prima. Eppure mai consenso fu più volatile ed effimero. Infatti, l’ingombrante alleato stava già attingendo dal loro serbatoio elettorale fino al travaso di voti delle elezioni europee del 2019, che poi portarono alla famosa svolta del Papeete.

L’alleanza con il “partito di Bibbiano”

È stato proprio allora che sono iniziate le giravolte più clamorose di Di Maio e del suo movimento che intendeva aprire il Parlamento come una scatola di tonno. Invece, i pentastellati sono stati fagocitati dalla stessa struttura di potere che volevano scardinare fino a diventarne il perno. E, allora, ecco la nuova alleanza con il Pd, definito in precedenza da Di Maio “il partito di Bibbiano che fa l’elettroshock ai bambini”.

Peraltro, l’occasione di traslocare da via Veneto alla Farnesina era troppo ghiotta per poter fare gli schizzinosi. Il Ministero degli esteri valeva bene un’alleanza con gli ex acerrimi nemici.

Tuttavia, non tutte le ciambelle riescono col buco e anche la seconda coalizione spuria di questa legislatura era arrivata al capolinea nel febbraio del 2020, se non fosse stato per l’improvvisa epidemia che ha creato il collante perfetto per cementare il partito del non voto, cioè l’insieme di parlamentari spaventati dalla prospettiva di perdere scranno e prebende.

E, così, il secondo governo Conte è riuscito a trascinarsi per un altro anno tra decreti notturni e sermoni sanitari a reti unificate. Colui che secondo Zingaretti era diventato “il punto di riferimento dei progressisti” è stato costretto a lasciare lo scettro e ad accomiatarsi dagli italiani con un’indimenticabile conferenza stampa per strada insieme al fido Casalino.

Giggino nel “governo dei migliori”

Certo, chi sperava nel ritorno alle urne rimase ampiamente deluso. Silurato Conte, è arrivato il momento di Draghi e del suo “governo dei migliori” che, naturalmente, annovera pure Luigi Di Maio sopravvissuto politicamente all’ennesima tempesta.

Dopo qualche mese di coabitazione nell’Esecutivo, l’ex presidente della Bce ha tessuto perfino le lodi del suo ministro degli esteri: “L’esperienza lo ha fatto maturare. È questo salto di qualità è segno di intelligenza politica”. È pur vero che Draghi ha elogiato perfino Speranza (“un ottimo ministro della salute”), però è evidente che Di Maio ha fatto breccia in quello che una volta chiamava con sprezzo establishment.

Tutto gli fu perdonato

Gli è stato perdonato tutto: dalle incertezze lessicali alle gaffe, dalle contraddizioni stridenti ai momenti da barricadiero de’ noantri, tipo la richiesta di impeachment per Mattarella o le scorribande in terra francese il suo ex sodale Di Battista a sostegno dei gilet gialli. Insomma, oggi l’uomo che sbagliava i congiuntivi e litigava con la consecutio temporum è diventato un pilastro della nostra diplomazia.

Per cui, nella terza vita politica di Di Maio la metamorfosi atlantista rappresenta l’ancora di salvezza per ritagliarsi uno spazio anche nella prossima legislatura e sfuggire al limite del doppio mandato. Non importa che ci sia stato qualche inciampo in epoca pure recente.

Scurdammece ‘o passato e pure l’incontro con Xi Jinping (“Ping” nel lessico dimaiano), con tanto di strette di mano, sorrisi d’ordinanza e omaggio della maglietta della nazionale italiana. Oppure, senza andare indietro fino alla preistoria, i ringraziamenti alla Russia nel marzo 2020 all’inizio dell’emergenza sanitaria. Insomma, la discussa missione russa a quei tempi era un vessillo da sbandierare, se non strumento di propaganda. Oggi dovrebbe creare almeno un po’ di imbarazzo ma si fa finta di nulla.

Da euroscettico a europeista

L’Italia, si sa, è un Paese che soffre di gravi amnesie. Così come non si ha più memoria neppure dell’altra repentina conversione dimaiana, da euroscettico a europeista convinto.

Per carità di Patria, è meglio glissare sull’incredibile sostegno al controverso leader venezuelano, Nicolàs Maduro, perché ora il leader pomiglianese, con tono a metà tra lo ieratico e il brechetiano, ha annunciato nel lasciare il Movimento che lui si è posto “dalla parte giusta della storia”.

Intanto che si compie questa svolta epocale, qualcuno dovrebbe ricordargli che siede alla Farnesina in rappresentanza del maggior gruppo parlamentare di questa legislatura (peraltro in tragica emorragia di consensi come certificato dai sondaggi e dalle recenti consultazioni elettorali). Se, come Jack Frusciante qualche tempo fa, ne esce, allora viene meno quella stessa rappresentanza.

Un trapezista

Come la mettiamo per giustificare anche questa ennesima forzatura? Vale sempre lo stesso schema: come non si cambia il ministro della salute in pandemia, così non si sposta una virgola nemmeno a Piazzale della Farnesina in tempo di guerra. E, così, con le stesse doti acrobatiche di un trapezista che difetta in strategia ma si è rivelato un abile tatticista, Di Maio è rimasto ancora una volta in sella.

L’ex steward dello stadio San Paolo che non fu riconosciuto da Donald Trump, come racconta nella sua autobiografia, dal titolo deamicisiano “Un amore chiamato politica”, va dritto per la sua strada. Si separa dal Movimento e da Conte, descritto nell’opera dimaiana in versione Richard Gere al momento dell’investitura da primo ministro: “Al suo arrivo in hotel indossava una camicia, il primo bottone sbottonato, la sua abbronzatura era forte, decisa, molto estiva e gli conferiva un’aria di spensieratezza”.

Peraltro, l’abbronzatura e la spensieratezza rimandano a un’altra spiaggia, quella di Porto Cesareo, dove la scorsa estate il titolare della Farnesina si intratteneva sul bagnasciuga con Emiliano e Boccia mentre i talebani si riprendevano l’Afghanistan.

Atlantista per caso

Sono trascorsi dodici mesi, gli scenari internazionali hanno subito diversi sconvolgimenti e quello che una volta inveiva contro il sistema è diventato parte dello stesso sistema. Atlantista per caso e draghiano per necessità, avrà dimenticato le sue intemerate contro i voltagabbana i cui cambi di casacca non dovevano essere tollerati.

Ora, l’uno non vale più l’altro e va bene tutto. Anche conservare un ministero di importanza strategica senza avere più un partito. È la democrazia 3.0, bellezza. D’altronde, il passo dal populismo rabbioso e ruspante degli esordi al rampantismo in doppio petto si è dimostrato più breve del previsto.

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