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Il pericolo maggiore per Meloni: la trappola della “soluzione europea”

Dal “price cap” alla ripartizione dei migranti, dalle politiche climatiche al nuovo Mes, il rischio di governare con il pilota automatico inserito

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Il principale pericolo che corre il governo Meloni non arriva dalle opposizioni – divise e allo sbando, avvitate nelle proprie contraddizioni – né dall’interno della maggioranza, non essendoci al momento alternative che gli “scontenti” possano percorrere. Tanto meno dallo sbracciarsi dei media di sinistra con tutta la loro carovana di finti “esperti” di parte.

E in realtà, a ben vedere, nemmeno la crisi energetica e l’inflazione potranno infliggere troppi danni politici al governo: almeno per i primi mesi, nessuno potrà credibilmente imputargli di non aver saputo migliorare la situazione. Avendo tra l’altro pochissimo tempo per impostare la legge di bilancio, potrà dargli solo un’impronta.

Il mantra della “soluzione europea”

No, il principale pericolo sta nell’approccio del governo stesso ai diversi dossier. Gli italiani si accorgeranno presto se la musica è cambiata, se la “pacchia” è davvero finita o no.

Come abbiamo segnalato su Atlantico Quotidiano già all’indomani del voto, il pericolo maggiore è una eccessiva continuità, al di là delle apparenze; è il pilota automatico impostato dai governi precedenti e da Bruxelles.

Se su diversi dossier cruciali, dall’energia all’immigrazione, il mantra comune continuerà ad essere, come ci pare al momento, che “la soluzione è europea”, allora prima o poi il governo Meloni resterà impaludato esattamente come i suoi predecessori.

Al netto di una prima fase di accreditamento e rassicurazione, gli elettori non hanno votato per more of the same.

Giorgia Meloni non dovrebbe cedere alla presunzione di riuscire a portare a casa gli obiettivi che i suoi predecessori hanno mancato, illudendosi che basti un atteggiamento più assertivo. Piuttosto, dovrebbe chiedersi se non fossero sbagliati gli obiettivi.

Che si appellino ai vincoli di Bruxelles come alibi per giustificarsi, o che se ne lamentino, i nostri governi sembrano incapaci di assumere qualsivoglia iniziativa senza chiedere il permesso o, peggio, aspettare i tempi di complicatissimi processi negoziali per affrontare le emergenze nazionali.

Per ogni problema parte il litania: ci vuole una “soluzione europea”. Se non iniziamo noi, in casa a nostra, ad agire nei nostri interessi laddove possiamo, non cambierà nemmeno il nostro standing nel consesso Ue.

L’esempio più clamoroso di queste settimane è la vicenda del price cap, ancora in alto mare: la “soluzione europea” su cui il governo Draghi ha puntato, perdendo mesi mentre la crisi si aggravava, e in cui ora il governo Meloni dovrebbe ben guardarsi dal perseverare.

Il braccio di ferro con le ong

Scendendo nel concreto, guardiamo a quanto accaduto in questi giorni con le navi ong piene di migranti che chiedevano di sbarcare al porto di Catania. Ci è sembrato di rivedere uno stesso film, con poche variazioni, rispetto al 2018.

Che la Ocean Viking, della francese Sos Mediterranee, attraccherà a Marsiglia rischia di essere una vittoria di Pirro. Il governo francese ha accettato come soluzione strutturale che le navi francesi sbarcano i migranti in Francia, o forse il presidente Macron non ha voluto regalare alibi all’Italia già al primo giro?

Intanto, non sappiamo se parte di uno scambio, abbiamo dovuto far sbarcare a Catania tutti i 572 migranti sulla Geo Barents, accettando se non il principio il dato di fatto che i “naufraghi” prima o poi sbarcano tutti se la nave che li ha soccorsi, o meglio trasbordati, entra in acque nazionali, anche senza il consenso del nostro governo.

Il rischio, se il governo resta nel solito schema per cui “la soluzione è europea”, ovvero la fantomatica “ripartizione” dei migranti tra i Paesi Ue disponibili, è di andare incontro a estenuanti trattative, nave per nave, umiliazioni in serie, e di subire pure le pronunce della magistratura.

Anche perché c’è un dato davanti agli occhi di tutti, ma che tutti sembrano trascurare. A meno che non prevalga il principio che le navi ong sbarcano i migranti negli Stati di cui battono bandiera, la “ripartizione” può riguardare gli aventi diritto all’asilo, ma mai i migranti cosiddetti “economici”.

E mediamente gli aventi diritto all’asilo non superano il 10/15 per cento. Ciò significa che minimo 8 migranti su 10 che sbarcano restano un problema solo nostro. E ciò nella migliore delle ipotesi in cui qualche Paese si faccia carico di una parte dei 2 su 10.

La ripartizione, quindi, quand’anche si ottenga, non può essere la soluzione. La soluzione è la difesa dei confini. Ed è quello che in realtà, senza dirlo, vorrebbero da noi anche i nostri partner europei e magari sarebbero anche disposti ad aiutarci.

Il punto non è spartirsi i migranti, ma impedire che siano trafficanti e ong a decidere chi entra in Europa e in Italia.

La transizione green

Lo stesso discorso vale con riguardo alle politiche climatiche, che sono all’origine della crisi energetica, come due giorni fa ha candidamente ammesso il ministro dell’economia francese Bruno Le Maire in una intervista al Corriere.

Molto deludenti le parole di Giorgia Meloni alla Cop27. Se non si esce dalla narrazione della “lotta al cambiamento climatico” e della “transizione” (in qualunque modo venga aggettivata) non si uscirà nemmeno dalla crisi energetica. Né ci salveremo dalla de-industralizzazione e dalla dipendenza dalla Cina.

Anche in questo caso, la “soluzione europea” è quella sbagliata: da politiche come l’ETS, e da obiettivi di decarbonizzazione che sembrano lontani, ma che incidono già oggi sulla nostra industria e sugli investimenti in fonti energetiche di cui avremo bisogno per decenni, bisogna uscire prima possibile.

La conferenza dell’Onu sul clima, proprio perché inutile, rappresentava una buona occasione per iniziare a fissare alcuni paletti almeno a parole, per esempio affermando che inquinamento e clima, difesa dell’ambiente e lotta ai cambiamenti climatici, sono due cose diverse.

Ammesso che esista una “transizione giusta”, nel senso di economicamente e socialmente sostenibile, manifestamente non è quella verso cui ci siamo avviati. Eppure, a Sharm el-Sheikh, Meloni ha ribadito che “l’Italia resta fortemente impegnata a proseguire il suo percorso di decarbonizzazione, nel pieno rispetto degli obiettivi dell’Accordo di Parigi”.

Se spesso alle parole non corrispondono le azioni, è ancor più difficile che i fatti seguano senza nemmeno le parole ad anticiparli.

Il nuovo Mes

Infine, un terzo esempio concreto di “soluzione europea” in cui il governo Meloni rischia di impaludarsi.

Il pilota automatico sembra inserito sul dossier del nuovo Mes. Dietro sorrisetti e smorfie il ministro dell’economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti ha lasciato intendere che la linea del nuovo governo sulla ratifica del trattato è la medesima del governo Draghi.

Quindi, nonostante sia sostenuto da partiti che si sono sempre detti contrari al nuovo Mes, il governo pensa di portare il nuovo trattato in ratifica dopo la probabile pronuncia favorevole della Corte di Karlsruhe.

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