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I populisti come nuovi contrattualisti

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Nell’immaginario di Capalbio, probabilmente, il populista assomiglia un pochino al Mago Oronzo: canotta sudicia, pancia enorme e bene in vista, mani unte e la totale incapacità di esprimere un concetto sensato nella lingua di Dante. Un uomo/donna che, nella sua quotidianità, passa il suo tempo al bar a imprecare contro i migranti e/o a riempire schedine e moduli per il reddito di cittadinanza. Torna alla mente una famosa scena del film “Fratelli d’Italia”, quando il falso Cristiano Gardini rivelava la sua vera identità – Cesare Proietti – dopo aver sentito Turchese de Benedetti (una giovanissima Nathalie Caldonazzo) e gli altri facoltosi commensali, insultare i suoi amici “burini” arrivati a dare spettacolo in Costa Smeralda.

Beh dai, non lo neghiamo, qualche “populista” assomiglierà sicuramente a questa divertente descrizione. Il problema però è che il “qualche” non fa “primavera”, nel senso che non racconta affatto la realtà del populismo. Questo perché, come sottolineato da osservatori come Carlo Pelanda e Giovanni Orsina, populismo è solamente un semplicistico modo di raccontare il voto di protesta di milioni di persone disilluse e stanche, che da anni non percepiscono dalla politica le risposte ai loro bisogni fondamentali. Allora forse, più che populisti, questi elettori andrebbero chiamati “i nuovi contrattualisti”. Ovvero coloro che, attraverso un voto estremo, hanno scelto di far comprendere all’establishment politico come il “contratto sociale” ideale che avevano firmato con lo Stato, si sta ormai definitivamente rompendo.

La storia delle dottrine politiche è piena di riflessioni sul concetto di contratto sociale, su cui non è il caso di soffermarsi. La visione che preferisce chi scrive è quella Hobbesiana. In grandissima sintesi, l’uomo rinuncia alla sua libertà e firma un contratto con lo Stato in cambio della sicurezza, al fine di non cadere nella società dell’anarchia, quella dell’uomo che diventa un lupo per un altro uomo. Basta allora guardare lo stato odierno delle periferie delle principali città italiane, per capire come l’uomo sia spesso tornato un lupo per un altro uomo. Aree dove la polizia non può entrare, giardini ormai rubati ai bambini per diventare i centri dello spaccio – spesso gestito da comunità di migranti – quartieri che diventano piscine quando piove e strade così dissestate da far invidia a quelle di Baghdad. Ovviamente non sono che piccoli, piccolissimi, esempi di vita quotidiana di un “populista medio”, o meglio, di quel “nuovo contrattualista” che ha scelto di dire basta, di tornare a pretendere i suoi diritti fondamentali. In altre parole, il diritto a vivere una vita migliore, una vita che non somigli unicamente ad una guerra contro la fine del mese. Chi non ricorda quando Stefano Fassina, coraggiosamente per un uomo di sinistra, parlò di “evasione di necessità”, per descrivere tutti coloro che dovevano scegliere se pagare tutte le tasse, o pagare l’affitto, gli impiegati, le bollette o la rata della macchina? Chi non ricorda la reazione rabbiosa della Cgil, la stessa che oggi strizza gli occhi ai grillini? Non serve aggiungere altro.

Se il mondo progressista vuole davvero comprendere il fenomeno del populismo – e provare a guidarlo, perché questo fa la politica – deve smettere di riflettere troppo e iniziare seriamente a guardarsi intorno. Soprattutto deve cercare di capire come mai persino moltissimi moderati preferiscono avere al governo una alleanza tra grillini e leghisti, piuttosto che nuove forme di esecutivi tecnici o di centrosinistra. In altre parole, preferiscono consapevolmente avere come ministri personalità politiche che considerano inesperte e spesso inadeguate, piuttosto che “veterani delle istituzioni”, incapaci però di rispondere ai minimi bisogni fondamentali.

Il “populismo” non morirà se cadranno Salvini o Di Maio. Al massimo, potrà peggiorare, portando a cercare risposte in personaggi come Di Battista (che il Cielo ce ne scampi). Meglio sarebbe allora cercare di capire da quale Comunità si deve ripartire. Se non potrà essere una Comunità etnicamente omogenea, dovrà almeno essere una Comunità che accolga con delle regole chiare e nella quale il cittadino si senta ancora parte di un progetto vivo di società, e non un mero ingranaggio da spremere per fini spesso altrui.

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