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Siria solo uno degli effetti, è l’Iran la causa e il cuore del problema

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Michael Ledeen come sempre illuminante.

Il mondo degli analisti geopolitici si divide in due categorie: da un lato, quelli che si concentrano sulla pura tattica, sul minuto per minuto, sull’analisi degli effetti; dall’altro, quelli – meno numerosi e più preziosi – che hanno una visione strategica, uno sguardo d’insieme, un’attenzione profonda alle cause. Per i primi, tutto si affronta per compartimenti stagni: ogni singola crisi va esaminata nella sua specificità. Per i secondi, è essenziale una visione olistica: considerare non l’albero ma la foresta, allargare lo sguardo, approfondire i nessi di causalità, risalire alle origini per esaminare meglio anche il singolo problema di stretta attualità.

Michael Ledeen è uno dei pochi maestri viventi della seconda categoria. Presso la Foundation for Defense of Democracies, nei suoi libri, nella sua costante attività editoriale su PJMedia, propone riflessioni e soluzioni basate sui princìpi, e su un’idea di fondo.

Inutile farsi illusioni: l’Occidente è sotto attacco, e una guerra globale è già in corso (e non è affatto detto che la stiamo vincendo). Una serie di forze e paesi tra loro diversi, e non di rado in conflitto tra loro, hanno tuttavia un punto in comune: il nemico, e cioè noi, il sistema basato su democrazia e mercato.

Anche nell’analisi della situazione siriana, Ledeen ripropone una logica ferrea. Damasco è solo uno degli effetti, mentre la causa sta a Teheran. E’ Teheran, prim’ancora di Mosca, che ha deciso di difendere Assad; è Teheran che ha fornito decine di migliaia di soldati e mercenari per le fallimentari operazioni in Siria, Iraq e Libano; è Teheran che vuole usare la Siria come piattaforma per attaccare Israele.

Oggi ci sono due fatti nuovi, spiega Ledeen. Il primo è che queste scelte di Khamenei sono oggetto discussione anche nel suo paese, che nel frattempo il regime ha fatto sprofondare in una crisi sempre più drammatica. Il secondo è che non c’è più Obama come interlocutore, ma Trump: il quale vuole mettere in discussione l’Iran deal e non mostra alcuna simpatia per il regime di Teheran.

E allora la logica di Ledeen è stringente: occorre riprendere in mano l’obiettivo del regime change a Teheran. Occorre sostenere gli oppositori. Occorre replicare lo schema che portò Reagan-Thatcher-Wojtyla a sostenere le rivoluzioni anticomuniste nell’Est Europeo.

A ben vedere, c’è un alleato impensabile: la tecnologia. Ancora nove anni fa, ai tempi dell’ultima rivolta repressa in Iran, su 80 milioni di cittadini di iraniani, si stimava vi fosse solo 1 milione di smartphones. Oggi, la stima è che la metà della popolazione usi – come può, nei limiti del consentito – i social media, a partire da Telegram.

Un regime change a Teheran cambierebbe totalmente la vita non solo ai cittadini iraniani, restituendo loro la libertà, ma darebbe respiro a un’intera area strategica: in un colpo solo, cesserebbe il sostegno a Hezbollah, si staccherebbe la spina a Assad, cesserebbe un supporto strategico e finanziario per il terrore jihadista, verrebbe meno una delle minacce più gravi contro Israele, si porrebbero le basi per un nuovo equilibrio in tutto il Medio Oriente.

C’è da augurarsi che John Bolton e Donald Trump abbiano modo, in questi giorni di scelte sulla Siria, di rileggere le analisi e i suggerimenti di Michael Ledeen sull’Iran. E’ lì che troveranno i consigli di cui hanno bisogno: anche per Damasco.

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