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Stallo Brexit: come ci siamo arrivati e perché non possiamo permetterci di deridere Westminster

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Persi due anni e mezzo, dal referendum del giugno 2016 sulla Brexit, ci ritroviamo oggi sia politicamente che “psicologicamente” al punto di partenza. Nessun passo avanti, nessun elemento di chiarezza, nessun punto fermo che possa aiutare i cittadini sia al di là che al di qua della Manica a orientarsi su quanto accadrà nel prossimo futuro. L’incertezza è il maggior danno, tutti gli attori ne erano consapevoli e tutti sembrano aver meticolosamente complottato perché permanesse. Ieri sera il Withdrawal Bill concordato tra il governo May e Bruxelles è stato bocciato dalla Camera dei Comuni per 432 “no” a 202 “yes”. Un bagno di sangue per la premier britannica, che si è vista voltare le spalle da 118 deputati conservatori, la più ampia sconfitta parlamentare di sempre.

Ma ciò che stupisce, ancora una volta, è la reazione qui sul Continente, non diversa da quella nei giorni successivi alla vittoria del Leave nel 2016. Un atteggiamento di infantile derisione e adolescenziale sarcasmo da parte sia della politica e delle istituzioni europee che di molta stampa mainstream, dell'”inviato collettivo”. C’è compiacimento per la crisi politica a Londra. Dunque, la totale incapacità non solo di comprendere l’impatto negativo che un’uscita disordinata e un rapporto avvelenato tra le due sponde della Manica avrebbero anche sull’Unione europea oltre che sul Regno Unito, ma persino di interessarsene. Dopo due anni e mezzo non abbiamo ancora capito che la Brexit non sono solo “affari loro”, ma anche nostri. Abbiamo tentato di spiegarlo, con Daniele Capezzone e molti altri autorevoli contributors, che ringraziamo, in “Brexit. La Sfida”, ormai un anno e mezzo fa (disponibile in questi giorni la versione ebook). Sembra però che questi due anni e mezzo siano passati senza nemmeno il tentativo di elaborare il divorzio.

Eppure, non sono certo mancate occasioni e materiali per approfondire, riflettere. Ma niente. Siamo ancora fermi alla narrazione, semplicistica e consolatoria, autoassolutoria, di un manipolo di populisti (una variante in realtà è stata aggiunta: e di troll russi) che avrebbero ingannato milioni di elettori rozzi e ignoranti, convincendoli ad abbandonare una specie di paradiso terrestre, l’Ue sol dell’avvenire. Come in ogni campagna elettorale entrambi i campi hanno fatto ricorso alla propaganda e ad esagerazioni: l’azzardo ottimistico, persino le facilonerie, della campagna per il Leave, ma anche il famigerato “Project Fear” della campagna per il Remain, avvalorato non solo dalla Banca d’Inghilterra, ma anche dai goffi interventi di personalità ai vertici delle istituzioni europee e internazionali, fino all’allora presidente americano Obama.

Quello che nessuno ha ancora interesse a indagare e raccontare è l’altro lato della Brexit, quello liberale. Il Leave non avrebbe mai prevalso solo con i messaggi populisti e nazionalisti di Farage. Oltre alla decisiva spinta della crisi dei migranti gestita in modo suicida dalla cancelliera Merkel, determinante per la credibilità stessa di un futuro per il Regno Unito al di fuori dall’Unione europea è stata la visione liberale di molti altri protagonisti della campagna: settori importanti dei Tories che non possono certo venire ridotti a becero populismo, autorevoli economisti, intellettuali, think tank liberali, eredi della cultura politica di Margaret Thatcher. A proposito, ecco quanto la signora Thatcher disse nel 2001 a una manifestazione del partito: “The greatest issue before our country, is whether Britain is to remain a free, independent, nation-state. Or whether we are to be dissolved in a federal Europe. There are no half measures, no third ways – and no second chances”. Populista anche lei?

Hanno giocato quindi un ruolo fondamentale la storica vocazione globale, e non solo europea, dei britannici, e il loro attaccamento al modello Westminster, l’istinto a difendere il loro sistema di democrazia parlamentare che vanta una tradizione secolare, contraddistinto oltre che da uno straordinario equilibrio tra i poteri, anche dall’abitudine popolare, non solo delle élites, a interloquire con un ceto politico direttamente accountable, a cui si possa immediatamente chieder conto delle scelte, rispetto a un centro di potere, come quello di Bruxelles e Strasburgo, a torto o a ragione vissuto come distante fisicamente e culturalmente.

Modello Westminster che, nonostante tutto, abbiamo visto all’opera, e in grande salute, anche in questi giorni. Altro che la dimostrazione che con la democrazia diretta si va a sbattere… A sbattere ci è andato, semmai, un governo che ha negoziato male, sulla base di una logica, perdente in partenza, di mera riduzione del danno. L’uso di uno strumento di democrazia diretta per decidere se restare o uscire dall’Ue (due volte in quarant’anni, la prima per entrare nella CEE) non ha affatto esautorato la democrazia rappresentativa, come pretende la vulgata dalle nostre parti. Al contrario, abbiamo assistito in questi mesi a Londra al ritorno della centralità del Parlamento. Si tratta di un passaggio cruciale per il Regno Unito, inevitabili i costi sia economici che in termini di conflittualità, di caos, di confusione politica – e più alta la posta in gioco, più alti sono tali costi. Si chiama democrazia: le scelte, quanto più difficili, tanto più dibattute. Stiamo assistendo a un processo faticoso ma profondamente democratico. Peccato non si possa dire lo stesso dell’Ue, dove il processo Brexit è stato portato avanti per lo più da una manciata di persone nel chiuso di una stanza, con i capi di stato e di governo aggiornati in mezz’ora di tanto in tanto. Qualcuno ha la minima idea, per esempio, di quali siano stati il contributo e la linea italiani, dei nostri governi – prima Gentiloni poi Conte – in questi due anni?

Gli elettori non hanno sempre ragione. Una ovvietà. Ma il paradigma nella nostra Unione sembra l’opposto: hanno torto a prescindere. Così in Francia, Olanda, Irlanda, Grecia e ogni volta, ovunque, i cittadini siano stati chiamati ad esprimere la loro volontà su atti e passaggi fondamentali dell’Ue, o sono stati riconvocati alle urne per esprimersi diversamente, o del tutto ignorati. Si vorrebbe che ciò accadesse anche nel caso della Brexit.

Siamo ormai culturalmente così assuefatti alle dinamiche istituzionali Ue, ai suoi processi decisionali, da non accorgerci dei suoi tratti centralisti, quasi napoleonici, autoritari, e da vedere quasi con fastidio la fatica del processo democratico in corso a Londra, qualcosa da deridere, al massimo da commiserare. Loro ne verranno fuori e il ruolo di Westminster sarà stato centrale. L’ultima manovra di bilancio italiana, ancor più delle precedenti, è stata decisa tra Roma e Bruxelles con il Parlamento umiliato. Fate voi…

Abbiamo evidenziato nell’articolo che troverete anche nella versione ebook di “Brexit. La Sfida” i molti errori di Theresa May: l’essersi illusa che la sua idea di soft Brexit le avrebbe garantito al momento decisivo una mano da parte di Bruxelles (da qui la decisione di non utilizzare le poche leve negoziali nelle sue mani), mentre le sue controparti non hanno avuto alcuno scrupolo ad umiliarla. Fino, in ultimo, alla irresponsabile decisione di rinviare il voto decisivo sull’accordo facendo perdere ulteriori cinque settimane al proprio Paese.

Ma non si può non vedere, a meno di soffrire di strabismo politico, come l’approccio punitivo da parte europea abbia protratto e alimentato un caos che ora rischia di danneggiare tutti… L’obiettivo fin da subito non è stato quello di lavorare a un divorzio ordinato e di porre le basi per le relazioni future, ma di infliggere i maggiori danni possibili, nella convinzione che alla fine Londra si sarebbe vista costretta a revocare l’articolo 50, o a rimanere vincolata all’Ue a tempo indefinito, in una condizione di vassallaggio. In ogni caso, si sarebbe dimostrato quanto sia costoso, ai limiti dell’impossibile, uscire dall’Ue, come monito nei confronti di chiunque osasse in futuro intraprendere tale strada.

Dobbiamo aspettarci, tra una decina d’anni, che uno Juncker o chi per lui ammetta quanto sia stato “avventato” e controproducente l’approccio punitivo dell’Ue nei confronti di Londra, come riconosciuto ieri dal presidente della Commissione a proposito dell’austerità e della crisi greca?

Certo, si potrebbe dire che i cittadini britannici si siano infilati con le loro mani in questo pasticcio e che ora debbano patirne tutte le conseguenze. Ma ciò nondimeno sarebbe una posizione miope, ignorante e autolesionista: populista, direi. Di fronte all’eccezionalismo britannico, che abbiamo ricordato sopra, quella specificità che da sempre, storicamente, ha contraddistinto il legame tra la Gran Bretagna e il continente europeo, e al valore di questo legame dimostrato in più occasioni nel secolo scorso, i leader Ue avrebbero dovuto mostrarsi più flessibili. Invece, non riconoscendo la ineluttabile specificità di questo rapporto, e sottovalutandone il valore, hanno bruciato due leader “europeisti” come Cameron e May umiliandoli e facendoli tornare a Londra a mani vuote. Se nel 2015-2016 fu per un errore di sottovalutazione delle reali chance di vittoria referendaria del Leave, oggi per calcolo consapevole, per arrecare danni.

Peccato che per dimostrare che la Brexit è un fallimento, una sciagura per il popolo britannico, bisogna permettere che accada davvero, che l’uscita sia effettiva, e poter concludere, dopo qualche anno, che stavano meglio quando stavano dentro. L’esito dell’approccio europeo ai negoziati invece rischia solo di rinviare o sabotare la Brexit, alimentando recriminazioni e offrendo l’alibi del tradimento della volontà degli elettori.

Emblematico il tweet di Carlo Cottarelli, ieri, subito dopo la bocciatura del deal: “Dedicato a chi pensa che uscire dall’Europa sia facile”. Sì, qualcuno ha raccontato alla gente che fosse facile. Non lo è, ovviamente. Uscire dall’Ue (l’Europa è concetto un po’ diverso, da cui uscita ed entrata sono per fortuna indisponibili) è senz’altro un processo difficile, complicato, per la serie di trattati e regolamenti stratificati nell’arco dei decenni. Ma attenzione, perché se dovesse rivelarsi impossibile, ciò direbbe più sulla natura illiberale, non democratica, “imperiale” del progetto europeo, che sulla bontà o meno della scelta di uscire.

No deal, no Brexit o Brexit delayed sono tutti esiti preferibili al pessimo accordo May-Bruxelles bocciato dai Comuni. Difficile però capire cosa succederà. Elezioni anticipate e secondo referendum restano a mio avvisto sbocchi ancora improbabili. Questa sera Theresa May passerà indenne il voto di sfiducia, a meno di clamorose sorprese. Non si vede ancora una premiership Tory alternativa e sarebbe alto il rischio di elezioni anticipate e di consegnare Downing Street a Corbyn. Mentre la May ha già escluso elezioni anticipate e la revoca dell’art. 50, non ha escluso invece la richiesta di una sua estensione. La reazione dei vertici Ue sembra essere di chiusura, come già in altri momenti di impasse: “l’accordo non si rinegozia, spetta a Londra farci sapere come vuole procedere”, sono le parole d’ordine che vengono ripetute in queste ore. L’impressione è che da parte europea potrebbero aprirsi le porte a un rinvio della scadenza del 29 marzo, ma solo se Londra fosse disponibile ad una Brexit ancora più soft, accettando subito come sbocco finale più o meno quanto previsto dal meccanismo di backstop sul confine nordirlandese: permanenza nell’unione doganale (rinunciando però a uno dei benefici della Brexit, una politica commerciale autonoma e la possibilità di siglare trade deals con Paesi terzi) e/o nel mercato unico (accettando però anche la libera circolazione delle persone). Insomma, una Brexit solo di nome.

Difficile anche decifrare le parole di Angela Merkel: da una parte, non possono esserci nuovi negoziati sull’accordo; dall’altra, “cercheremo ancora di trovare una soluzione ordinata”, “abbiamo ancora tempo per negoziare, aspettiamo nuove proposte”. Più di una volta, in diverse fasi del negoziato, Londra ha atteso, ma invano, la discesa in campo del pragmatismo della cancelliera. Chissà che non sia la volta buona. Molto probabilmente, per superare il “no” dei Comuni basterebbe porre un termine temporale al meccanismo di backstop. La questione del confine nordirlandese è infatti tutta politica, come abbiamo già spiegato. La soluzione per evitare un confine rigido tra le due Irlande, che nessuno vuole, è a portata di mano: un accordo di libero scambio, che però l’Ue non ha voluto nemmeno iniziare a negoziare (prima chiudere i conti del divorzio). Il paradosso, di cui non sembra ci sia adeguata consapevolezza, è che se scatta il backstop, in base al principio Gatt e Wto della “nazione più favorita”, l’Ue dovrebbe garantire al mondo intero le stesse condizioni doganali concesse all’Irlanda del Nord. Un accordo di libero scambio il prima possibile, quindi, è nell’interesse di tutti. Quando ne prenderanno atto a Bruxelles, Parigi e Berlino?

La cosa più saggia per tutti sarebbe rinviare di 12 mesi, far decantare, aspettare il prossimo Parlamento europeo (maggio), la prossima Commissione (novembre), eventualmente una nuova leadership Tory (May fino a dicembre non è defenestrabile). Ma di saggezza in questi due anni se n’è vista davvero poca.

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