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Telespettatori stanchi della “liturgia del terrore”: calo di ascolti dei Tg

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Dal febbraio 2020, da quando cioè si iniziò a parlare per la prima volta di coronavirus, gli italiani sono oggetto di una vera e propria overdose di informazioni, un cocktail in cui tutto si confonde alimentando dubbi e incertezze. Qual è la situazione epidemiologica della mia regione? Quali precauzioni devo adottare per evitare il contagio? Qual è il rapporto costi-benefici della vaccinazione? A quali regole devo attenermi per non incorrere in multe salatissime? Interrogativi comuni alla maggior parte dei cittadini che cercano risposte attingendo da tre diversi tipi di fonti: le edizioni cartacee e online dei quotidiani, sempre più in declino per numero di vendite e di abbonamenti; i social media, destinati secondo alcuni ad assumere il monopolio dell’informazione; oppure la cosiddetta “televisione generalista”. Quest’ultima è stata per lungo tempo il mezzo più utilizzato poiché si rivolge ad un pubblico molto trasversale per estrazione sociale ed età (difficilmente i nonni di 85 anni navigano sui social). Eppure, nell’anno appena passato, una larga fetta di italiani ha rinunciato a guardare la televisione.

Secondo l’Osservatorio dell’Agcom sulle comunicazioni, nel 2021 gli ascolti televisivi sono calati del 7 per cento. Per non parlare dei telegiornali: fra le 18:30 e le 20:30 la riduzione negli ascolti del Tg1 è pari ad oltre 300 mila unità, mentre è di oltre 400 mila quella del Tg5. Gli ascolti del Tg La7 delle 20:00 si sono ridotti, invece, di 70 mila unità. Percentuali rilevanti che dovrebbero indurre il mondo dell’informazione mainstream a riflettere su come i giornalisti abbiano svolto il loro ruolo durante la pandemia.

Se una parte consistente della popolazione non guarda più la televisione in generale, e i telegiornali in particolare, un motivo dovrà pur esserci. A nostro avviso, le ragioni prevalenti sono due. La prima: al giorno d’oggi, in televisione – e lo stesso vale per i quotidiani – si parla solo di Covid. Al contrario di quanto accade in altri Paesi, dove i giornalisti approfondiscono anche altri temi di interesse del pubblico, qui in Italia l’attenzione è focalizzata a reti unificate sul virus e sui no-vax. Non si parla d’altro. I problemi che gravano sul nostro Paese da decenni sono pressoché scomparsi dalle prime pagine e dai titoli di apertura dei tg, quasi non esistessero più. Ormai, le notizie – anche importanti – che non abbiano a che vedere con il Covid passano sottotraccia. Basti pensare allo scarso interesse con cui i media hanno raccontato la vicenda, drammatica dal punto di vista umano e assai significativa dal punto di vista politico, dell’ex assessore regionale Angelo Burzi, suicidatosi dopo anni di calvario giudiziario.

Seconda ragione: nonostante la “liturgia del terrore” di cui sono stati vittime per circa due anni, lettori e telespettatori hanno preso coscienza della realtà. Nella maggior parte dei casi, il Covid non è una malattia letale, almeno non come un tempo. E milioni di persone la stanno affrontando senza particolari complicazioni, grazie ai vaccini e alle cure. Che senso ha, dunque, ostinarsi a diffondere il panico? Malgrado la situazione sia in larga misura sotto controllo, la quasi totalità dei media ricorre a toni allarmistici con effetti a dir poco devastanti. Come ha spiegato il professor Alberto Zangrillo in una recente intervista a Libero, “la quotidiana produzione giornalistica di angoscia, insicurezza e terrore utilizzando figuranti del settore sanitario in cerca di visibilità sta producendo danni gravissimi e incorreggibili”. Danni che la popolazione ha scontato sulla propria pelle in questi due anni e che ora non è più in grado di tollerare.

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