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Tempi bui per l'”Asse della Resistenza”: si allenta la presa di Teheran e Hezbollah su Libano e Siria

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Non sono tempi meravigliosi per il cosiddetto “asse della resistenza”, ovvero l’alleanza fra Iran-Hezbollah e Siria. Qualcosa non gira proprio come dovrebbe per Teheran e a dimostrarlo sono, più che le parole, una serie di silenzi che lasciano pensare.

Partiamo dal Libano: una settimana fa è stato reso noto che i militari di Unifil 2 si sono schierati nel porto di Beirut, per assistere direttamente le forze armate libanesi in seguito alle esplosioni avvenute ad inizio agosto. Si tratta di una decisione fino a qualche tempo fa impensabile, che certamente non farà piacere a Nasrallah e che limiterà di molto la capacità del Partito di Dio di usare l’area portuale della capitale libanese a proprio piacimento.

Senza contare che proprio il Libano ha deciso di avviare negoziati indiretti con Israele per risolvere l’annosa disputa dei confini marittimi. Anche questa, una scelta fino a qualche settimana fa impensabile, che tra l’altro verrà portata avanti direttamente per mezzo degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite (attraverso Unifil). Negoziati che sono stati annunciati dallo speaker del Parlamento libanese Nabih Berri e benedetti dal presidente libanese Aoun. Si badi bene, entrambi fino a poco tempo fa considerati alleati fedelissimi di Hezbollah.

Capitolo Hamas: il gruppo terrorista palestinese ha reso noto che Saleh al-Arouri, vice capo e capo dell’ala militare, è risultato positivo al coronavirus. Arouri è praticamente oggi l’uomo chiave di Hamas che tiene i rapporti sia con la Turchia – da cui è sostenuto anche economicamente – che con Fatah, per una possibile riconciliazione tra le fazioni palestinesi. Ma dentro Hamas stanno avvenendo una serie di guerre intestine per la leadership e, probabilmente nel 2021, si terranno le elezioni per decidere chi sarà la prossima guida del movimento islamico. È noto che l’attuale capo Islamil Haniyeh intende ricandidarsi, ma sembra che la stessa cosa voglia fare Khaled Meshaal, ex capo politico di Hamas fino al 2017.

Recentemente, Meshaal è stato accusato da Yahya Sinwar – potente capo militare di Hamas – di aver rubato dei soldi all’organizzazione e averli investiti in Turchia, registrando le proprietà a nome dei suoi figli. Non proprio il massimo per una organizzazione che, nel 2006, ha vinto le elezioni legislative palestinesi non tanto sul tema di Israele, quanto su quello della corruzione dei leader di Fatah.

Infine, la Siria: da quando è stata annunciata la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele e Emirati Arabi Uniti – a cui poi si è aggiunto il Bahrain e si aggiungeranno presto altri Paesi arabi – non una parola di condanna è arrivata dal presidente siriano Assad o da rappresentanti del regime di Damasco. Parole di condanna sono arrivate da membri del Baath siriano, ma sono sembrati più che altro slogan di circostanza. Il 4 ottobre 2020, Assad ha concesso una intervista alla tv russa Zvezda e non una sola domanda o un solo riferimento è stato fatto a proposito del processo di normalizzazione dei rapporti tra Israele e il mondo arabo. Impensabile che la domanda non sia stata evitata dalla giornalista russa su espressa richiesta del presidente siriano.

Tra le altre cose, riportiamo che in Siria è morto di coronavirus l’imprenditore Mohamad Makhlour, zio di Bashar al Assad e padre di Rami Makhlouf. Come si ricorderà, fino a qualche tempo fa Makhlouf era potentissimo in Siria, con un enorme impero economico, che spaziava in diversi settori dell’economia siriana, tra cui le telecomunicazioni. Improvvisamente, Rami Makhlouf è stato accusato di evasione fiscale, gli è stata requisita buona parte del patrimonio ed è stato costretto a lasciare il Paese. Di questo scontro ai vertici del regime siriano parlammo già su Atlantico Quotidiano, sottolineando come gli esperti ritenessero che fosse in realtà uno scontro tra Mosca – sostenitrice di Bashar al Assad e di una stabilizzazione dell’economia siriana – e l’Iran, sostenitore invece di Makhlouf e dei suoi traffici.

Non è facile capire dove porterà questo stato di debolezza dell’”asse della resistenza”. Non è facile dire se si tratta di azioni che l’Iran sta meramente subendo o di concessioni che Teheran sta facendo per poter sopravvivere. Certo è che ci sono persino analisti arabi che, parlando di quanto sta accadendo, arrivano a domandarsi: ci sarà prima o poi un viaggio di Bashar al Assad a Tel Aviv? Per ora, questa domanda appartiene alla fanta(geo)politica. Ma parliamoci onestamente: qualcuno, fino ad un mese fa, avrebbe mai pensato che uno dei primi Paesi a dirsi pronto a fare la pace con Israele sarebbe stato il Sudan dei tre no di Kharthum?

Riportiamo, infine, a proposito di Siria, che l’Oman ha deciso di rimandare il suo ambasciatore a Damasco. L’Oman non ha mai rotto ufficialmente le relazioni diplomatiche con la Siria, ma l’ambasciatore era stato richiamato a casa nel 2012, per ragioni di sicurezza. Da anni ormai, l’Oman è uno dei Paesi che maggiormente sostengono il processo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche con Israele ed è oggi tra i principali candidati ad aprire prossimamente un’ambasciata a Tel Aviv.

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