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Turnover in Medio Oriente: la Turchia abbraccia l’islamismo e l’Iran, forse, vuole uscirne

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Entro la fine di questo decennio l’Iran degli ayatollah, e delle bandiere americane e israeliane bruciate, abbandonerà l’islamismo radicale, mentre la Turchia moderna e laica fondata da Ataturk, membro della Nato e fedele alleato durante la Guerra Fredda, volterà le spalle all’Occidente rintanandosi nella sua identità musulmana.

La previsione è del più grande storico del Medio Oriente, Bernard Lewis, scomparso pochi giorni fa, e l’ha ricordata Sohrab Ahmari su Commentary. Risale al 2010, quindi forse non si avvererà alla sua scadenza precisa, la fine di questo decennio, ci vorrà ancora qualche anno. Ma almeno per il momento gli eventi sembrano andare in questa direzione in entrambi i Paesi.

In Turchia siamo più avanti. Dopo la vittoria del referendum costituzionale dello scorso anno, Erdogan, che governa il Paese dal 2003, ha appena conquistato al primo turno un nuovo mandato presidenziale, spazzando via le speranze delle opposizioni di costringerlo al ballottaggio e privarlo di una maggioranza parlamentare. Le manifestazioni oceaniche, la frenata dell’economia, l’inflazione galoppante e il crollo della Lira turca avevano autorizzato a sperare di poter assestare almeno un colpo al potere del Sultano. Invece, anche il suo partito, l’AKP, e i suoi alleati hanno conquistato una solida maggioranza dei seggi. Si è trattato di elezioni solo parzialmente libere, la campagna non si è svolta a parità di condizioni tra i leader e le forze politiche di governo e di opposizione. Grazie allo stato d’emergenza, proclamato nel 2016 a seguito del fallito golpe e ancora in vigore, in questi due anni Erdogan ha dato il via a una serie di purghe in tutti gli apparati dello Stato: decine di migliaia di persone arrestate o licenziate, libertà di stampa e di espressione compresse.

Ormai evidente la deriva autoritaria nel Paese. Erdogan sta via via svuotando le istituzioni indipendenti e rimuovendo i checks and balances della già immatura democrazia turca, procedendo a tappe forzate con l’islamizzazione del Paese e con la sua visione neo-ottomana in politica estera. Una Turchia che svincolata da qualsiasi subalternità, sia rispetto all’Europa e all’Occidente che rispetto alla Russia, ambisca a giocare il ruolo di potenza regionale e leader del mondo sunnita in piena autonomia strategica.

Nonostante questo, o forse proprio grazie a questo, una netta maggioranza dei turchi continua a sostenere Erdogan e l’AKP, plebiscito dopo plebiscito. In Erdogan non vedono un possibile tiranno, ma un leader forte che oltre ad assicuare un decennio di crescita economica e milioni di posti di lavoro ha riaffermato l’identità islamica del Paese, a lungo repressa, coniugandola con l’orgoglio nazionalista. L’allontanamento dalla prospettiva europea non sta facendo bene all’economia turca, i primi segnali sono evidenti, e il mondo del business turco ancora spinge in direzione dell’Europa. Ma una maggioranza di turchi preferisce una Turchia ancorata ai suoi vicini musulmani piuttosto che all’Europa e all’Occidente. “Ormai è giunta l’ora di riconoscerlo, per adesso la Turchia è persa”, conclude Ahmari.

Ciò non significa ovviamente che l’Europa e l’Occidente debbano recidere istantaneamente tutti i legami, politici, economici e militari con Ankara. Ma certo bisogna aprire gli occhi sulla natura strumentale, per Erdogan, di questi legami, sulla forza e persistenza del risveglio islamico nel Paese e, quindi, sulle sue prossime scelte strategiche.

Anche in Iran gli eventi stanno andando nella direzione prevista da Bernard Lewis: la Repubblica islamica sta vivendo una profonda crisi di legittimità al suo interno.

Non passa giorno senza una protesta. L’onda delle manifestazioni dei giorni scorsi in molte città è arrivata fino a Teheran. Migliaia di commercianti dello storico Grand Bazaar e di altri mercati nella capitale hanno abbassato le saracinesche unendosi ad altri manifestanti contro il rincaro dei prezzi e il peggioramento delle condizioni economiche della popolazione, e dando vita così alle proteste più imponenti dal 2012, quando le sanzioni contro il programma nucleare avevano messo in ginocchio l’economia del Paese. La polizia ha dovuto lanciare gas lacrimogeni per disperdere la folla diretta verso il palazzo del Parlamento. Il valore del Riyal sta letteralmente affondando: un dollaro americano viene scambiato con 90mila Riyal, mentre ne valeva 65mila il giorno prima che Trump annunciasse il ritiro degli Stati Uniti dal Jcpoa, l’accordo sul programma nucleare, e 42 mila alla fine del 2017. Il governo ha svelato addirittura un piano di razionamento dell’acqua in 136 città.

Ma questa volta il regime si trova ad affrontare proteste dalla natura molto diversa rispetto a quelle passate. Non si tratta di manifestazioni “politiche”, di un pezzo del sistema uscito sconfitto da elezioni che considera truccate, o dei ceti urbani e dei giovani che chiedono maggiori spazi di libertà e diritti. Sono proteste di stampo nazionalista e isolazionista, esplose per la grave situazione economica, che oltre ai ceti produttivi coinvolgono gli strati meno abbienti della popolazione, anche nelle città più religiose. Oggetto della rabbia popolare è la politica estera espansionista ed imperialista del regime, che ha svuotato le casse dello Stato per combattere guerre in Iraq e Siria, per sostenere Assad, Hezbollah, Hamas, gli Houthi nello Yemen, e a causa delle quali il Paese è di nuovo isolato e sanzionato.

“A Morte la Palestina!”, “Lasciamo la Siria, pensate a noi!”, sono solo alcuni degli slogan che risuonano nelle piazze e nelle strade. Gli iraniani ovviamente non hanno nulla contro i palestinesi, ma si chiedono perché il loro governo debba finanziare Hezbollah, Hamas e gli altri gruppi terroristici palestinesi, perché i loro soldi debbano andare a Damasco e a Gaza piuttosto che a Teheran, Isfahan e Shiraz. Affiora, forse per la prima volta dal ’79, un sentimento di nostalgia per lo Shah, Reza Pahlavi, che in molti anche in Occidente pensavamo inesistente. Il regime risponde con il manganello e i gas lacrimogeni, ma per quanto potrà continuare a farlo?

La previsione di Lewis è lì e le lancette dell’orologio scorrono, lente ma forse inesorabili. Anche per l’Iran non ci dobbiamo fare illusioni, ma certamente non è questo il momento di offrire sponde e boccate d’ossigeno al regime, che sta soffrendo di un’evidente crisi da overstretching. Deve aver fatto male i suoi conti, confidando forse negli spazi aperti dall’America di Obama e dall’Europa, ma il costo delle sue attività all’estero va oltre le sue forze: economiche (non ha la solidità e le risorse finanziarie necessarie) e politiche (il popolo iraniano non le condivide). Dovrà quindi scegliere, prima o poi, tra le attività destabilizzanti nella regione e la sua stessa sopravvivenza. Gli eventi mostrano che la nuova strategia dell’amministrazione Trump in Medio Oriente, tornare al fianco dei tradizionali alleati, ritirarsi dal Jcpoa e contrastare le mire egemoniche di Teheran nella regione, isolando il regime, va nella giusta direzione.

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