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Un Paese in vigile attesa: un governo che si regge sulle emergenze e fa piccolo cabotaggio

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C’è un equivoco profondo: siccome c’è l’emergenza bisogna fermarsi, non bisogna far altro, bisogna star fermi. Niente riforme, niente cambiamenti. Questo non è il motivo per cui è nato questo governo, non è nato per star fermo”.

La risposta, peraltro stizzita, fornita dal presidente del Consiglio, Mario Draghi, durante il question time di mercoledì scorso alla Camera dei deputati non può che lasciare sbalorditi. Ad ascoltare, a rileggere, si fa fatica ad attribuirgli queste parole per l’evidente contraddizione che si palesa: il suo governo si regge proprio sull’emergenza, anzi sulla doppia emergenza (quella sanitaria prima e quella bellica ora) da cui non riesce a liberarsi. Peraltro, nonostante l’ampia maggioranza che lo sostiene, il governo è costretto spesso e volentieri a porre la questione di fiducia, blindando la discussione parlamentare e inibendo possibili modifiche, soprattutto sui provvedimenti pandemici.

Infatti, se c’è un minimo comun denominatore che connota l’azione dell’esecutivo, è la strenua difesa del profluvio di decreti restrittivi emanati d’urgenza durante gli ultimi mesi, in particolare ciò che attiene alla certificazione verde considerata ormai alla stregua di un documento di riconoscimento digitale indispensabile per lavorare, socializzare e vivere. Ed è proprio sulla complessiva gestione sanitaria che si è manifestato il rigido immobilismo del governo, incapace di fornire la cd. road map per venir fuori dal pantano in cui sono affondati loro malgrado i cittadini. Al momento, non si va oltre le dichiarazioni a giorni alterni dei due vice di Speranza, Costa e Sileri. Ma, nella sostanza, a parte l’abolizione del lasciapassare per le attività all’aperto, cioè il minimo sindacale, non è dato sapere quando terminerà la sorveglianza sanitaria delegata a datori di lavoro, negozianti, baristi, ristoratori, albergatori, né quando cesserà l’odiosa discriminazione verso chi non è fornito di Green Pass nelle sue varie versioni (base e rafforzato), escogitate dai nostri intrepidi governanti. Insomma, siamo al più classico “vi faremo sapere” anche se si avvicina la dead line del 31 marzo, quando finirà lo stato d’emergenza sanitario, e il malcapitato cittadino resta ancora in balia dei capricci di certa politica.

Peraltro, il quadro non migliora per il governo anche se si analizza il suo operato in altri settori diversi da quello sanitario. Senza considerare la sistematica esclusione di Draghi dai vertici ristretti tra Biden, Johnson, Scholz e Macron sulla crisi ucraina, l’affaire catasto può essere davvero la Caporetto del governo checché ne dica il sottosegretario Guerra, che ha vincolato la sopravvivenza dell’esecutivo all’approvazione di questo provvedimento. Per la verità, il “non aumenteremo le tasse sulla casa” somiglia molto ad un’altra frase assai infelice pronunciata dal premier nel mese di luglio: “Il green pass dà la garanzia di trovarsi tra persone non contagiose”. Come la carta verde si è dimostrata un obbligo surrettizio, così il riordino delle proprietà immobiliari rischia di rivelarsi una stangata per i contribuenti, anche se a partire dal 2026. Insomma, niente scorre e di riforme coraggiose, cambiamenti epocali, svolte liberali (non sia mai detto!), nemmeno a discuterne. Sempre che non si vogliano considerare “riforme” quelle che attengono ai progetti di transizione ecologica, alle politiche che piacciono tanto ai fan di Greta, insomma a quelle forme di regressismo ambientalista che poi conducono a crisi energetiche, aumenti dei costi, riduzione dei servizi e peggioramento della qualità della vita.

Al contrario, il tratto caratteristico di questo governo oscilla tra la conservazione e il piccolo cabotaggio. È chiaro che, reggendosi su equilibri fragili, essendo appoggiato da partiti in competizione tra loro che sentono avvicinarsi l’appuntamento elettorale del 2023, il sentiero di Draghi diventa piuttosto stretto e impervio, rendendo rischiosa qualsiasi variazione sul tema. Perciò, si rifinanzia il reddito di cittadinanza nella difettosa versione grillina da un lato e, per provare a disinnescare i referendum sulla giustizia, si procede con una timida bozza di riforma che non sfiora nemmeno di striscio le problematiche annose che investono il funzionamento complessivo della macchina giudiziaria.

Perciò, si naviga a vista avendo come obiettivo solo la conclusione della legislatura; una legislatura, peraltro, ormai esaurita a febbraio 2020, tenuta in vita dalla pandemia, puntellata dalla sostituzione di Conte con Draghi, sopravvissuta alla corsa per il Quirinale e adesso trincerata dietro la guerra in Ucraina.

Ecco perché il discorso di Draghi è sembrato assai stonato in questo contesto così critico e, per altri aspetti, drammatico. La logica emergenziale è stata ed è ancora un macigno sull’azione di governo che doveva essere più spedita, più dinamica e invece si è attorcigliata nella farraginosa legislazione sanitaria, spesso illogica e per lo più dannosa. Con la grancassa dell’informazione mainstream che, invece, celebra il fatto che si possa tornare a mangiare i pop-corn al cinema, spacciandolo come una conquista civile o di libertà. Poi ci tocca sentire l’inviato a Londra di Mattino Cinque ammettere che lì, nel Regno Unito, dove tutte le restrizioni (assai blande se confrontate con le nostre) sono state abrogate, ci guardano come marziani perché giriamo mascherati all’aperto o non riusciamo ad affrancarci dalla paranoia pandemica. Comportamenti al limite della superstizione che nulla hanno a che fare con la normale prudenza ma piuttosto rappresentano l’immagine caricaturale di un Paese che, mentre l’aumento delle bollette e l’incertezza economica travolgono la classe media, resta in vigile attesa. O, più probabilmente, solo in declinante attesa come ne “Il deserto dei tartari”. Forse al posto di un Draghi così appannato ci vorrebbe un Drogo, il protagonista del famoso romanzo di Buzzati, con la sua tensione ideale, la sua straordinaria epica e la sua assoluta magnificenza.

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