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Un nuovo patto nazionale, federale, a partire da Lombardia e Veneto

Il nostro continente, nell’ultimo periodo, ha assistito ad alcuni passaggi che hanno messo in discussione i canoni della politica mainstream; tra questi hanno assunto particolare valenza la Brexit e la Dichiarazione Unilaterale di Indipendenza della Catalogna.
La sensazione è che non siano solo il centralismo europeo o quello spagnolo ad apparire in crisi, ma che emerga, invece, in termini sempre più generali, una perdita di legittimazione delle istituzioni politiche tradizionali ed al tempo stesso il desiderio dei cittadini di rifondare “dal basso” nuovi patti comunitari.
L’Italia non sembra immune da questa tendenza ed è sbagliato misurare ciò solo nell’irruzione sulla scena politica di forze antisistema come il Movimento 5 Stelle, difficilmente in grado di andare utilmente oltre la pars destruens, in quanto prive di qualsiasi visione economico-politica praticabile. C’è invece un altro fenomeno, meno compreso e meno mediatizzato, ed è il tentativo di alcune regioni del Nord di assurgere, forti di un mandato popolare, ad una posizione negoziale nei confronti dello Stato italiano.
La novità rappresentata dai recenti referendum in Lombardia ed in Veneto è che per la prima volta un progetto autonomista non viene più solamente da un partito, ma viene fatto proprio da un’istituzione riconosciuta.

A questa richiesta di dialogo che viene dalle Regioni, lo Stato centrale deve essere in grado di rispondere e la prossima legislatura dovrebbe sentirsi addosso la responsabilità di creare i percorsi politici e costituzionali adeguati ad un’evoluzione dell’Italia verso un assetto autenticamente federale.

La domanda di cambiamento che viene dal Nord è importante e va oltre la lettera dei referendum effettuati, inevitabilmente condizionata dagli angusti margini concessi dalla legalità centralista. Tuttavia, specialmente in Veneto, i cittadini che si sono recati alle urne hanno ampiamente sopperito con i loro numeri alla debolezza del quesito.
E’ per questa ragione che non ci si può accontentare di dare del risultato referendario una lettura minimalistica che ne restringa gli effetti alle poche concessioni in termini di autonomia che l’attuale Costituzione è disposta a riconoscere alle Regioni “ordinarie”.
Serve mettere in campo per lo meno le stesse prerogative che sono riservate alle attuali Regioni a statuto speciale. Del resto non si comprende bene quale possa essere la giustificazione per negare a vicentini o bergamaschi quei diritti di autonomia che pure concediamo senza problemi ai valdostani, ai trentini o ai friulani.
Non ne esiste ragionevolmente alcuna se non la rassegnazione generale all’immutabilità dello status quo – il concetto purtroppo molto “italiano” che tante storture e discriminazioni, per quanto evidenti, siano ormai un dato acquisito che ragioni di pragmatismo sconsigliano di mettere in discussione.
Purtroppo la spoliazione fiscale della Lombardia e del Veneto è stata finora sempre considerata come “politicamente sostenibile” ed esente da rischi per chi governa.

Certo, per molti anni il Nord è stato illuso che le sue istanze fossero finalmente comprese e riconosciute, quando invece sulle questioni sostanziali – quella fiscale in primis – lo Stato centrale non ha mai fatto alcun vero passo indietro.
La valutazione della (pretesa) “via italiana” al federalismo è ancor più impietosa se confrontata con il modo in cui altre democrazie hanno saputo adeguarsi rapidamente a richieste di cambiamento.
Ad esempio, quando, sulla scia dei primi successi della Lega Nord, la “questione settentrionale” è entrata nel lessico politico italiano, ancora non esistevano istituzioni scozzesi. Ebbene, nel giro di pochi anni, a partire dal 1997, il Regno Unito ha saputo dotare la Scozia di un proprio parlamento con competenze via via crescenti, fino persino a riconoscere un referendum per l’indipendenza nel 2014.
Gli scozzesi, in tale occasione, hanno scelto di rimanere con Londra, ma il fatto stesso che abbiano potuto votare ha posto il rapporto tra Stato centrale e comunità su un piano ontologicamente diverso rispetto alla visione gerarchica e piramidale del potere cara al “patriottismo costituzionale” spagnolo o italiano.

La storica democrazia anglosassone – come dimostra anche il referendum sulla Brexit – non ha paura di fare i conti con il diritto dei cittadini a decidere e di conseguenza è pronta a riconoscere il carattere pattizio – cioè federalista in senso etimologico – delle appartenenze comunitarie.
La lezione che dovremmo recepire da Westminster e da Downing Street è proprio che nessun feticismo istituzionale può venire prima del concetto che le istituzioni politiche devono in ogni momento derivare la propria legittimità dall’effettivo consenso dei cittadini e che quindi devono essere rinegoziabili e rimodellabili sulla base di esigenze che cambiano.

In Italia, ci sono pochi dubbi, che sia la sinistra la parte politica che maggiormente coltiva una visione sacrale degli status quo istituzionali e costituzionali e, di conseguenza, un’eventuale maggioranza di centro-destra potrebbe aprire una finestra di opportunità per una visione più aperta ed innovativa degli equilibri territoriali. Il centro-destra dovrebbe, idealmente, provare a ripartire da quanto c’era di buono nella proposta di riforma, purtroppo bocciata, del 2006, per provare a proporre ai cittadini veneti e lombardi – ed a quelli delle altre regioni che lo richiederanno – i termini di un rinnovato patto nazionale.

Non sarebbe certamente un cammino facile, perché l’intero assetto politico italiano pare congegnato per offrire la massima resistenza a qualsiasi cambiamento, ma è l’unica possibilità per ricondurre le diverse aree del paese ad una relazione sana e compatibile con la crescita.

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