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Vulnus costituzionali e Parlamento delegittimato: il velenoso lascito del governo giallo-rosso

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1. Si fa fatica a trattenere una risata ironica, pur in presenza di una situazione di crisi sanitaria ed economica, ma il cul de sac in cui si ritrova il Pd in vista del referendum costituzionale sulla riduzione del numero dei parlamentari sollecita una risposta ilare. Il bravo Zingaretti la può metter giù come vuole per tacitare una fronda interna come al solito guidata da parte della intellighenzia di sinistra, con i c.d. mass media indipendenti a farle da megafono. Solo ora si accorge di quanto sia pesante il costo di quel dato ad una riforma costituzionale già bocciata per tre volte, per dar vita ad un governo 5 Stelle/Pd/Leu, impostogli controvoglia al solo scopo di evitare il ritorno anticipato alle urne? Intanto, sentir parlare di una riforma anti-parlamentare, quindi di per sé antidemocratica, fa pensare, visto che è stata votata in ultima lettura dalla quasi totalità della Camera, vincendo la naturale ritrosia ad una riduzione destinata a mortificare l’aspettativa di una rielezione. Ma poi stupisce tutto questo clamore intorno ad un referendum che stando alla maggioranza non si sarebbe dovuto tenere, con l’immediata entrata in vigore della riforma, e che solo in virtù di una richiesta proveniente dall’opposizione è stato bandito.

Ci si può sbagliare, ma certo la strada del segretario del Pd per vedersi corrispondere almeno qualcosa della promessa contropartita, cioè l’approvazione in una delle Camere di una legge elettorale proporzionale, con lo sbarramento al 5 per cento, appare tutta in salita, tenuto conto della tenace volontà di sopravvivenza di forze della maggioranza, come Italia Viva e Leu, inchiodate nei sondaggi attorno al 3 per cento; nonché nettamente spuntata, perché ormai Zingaretti è condannato ad un dall’ormai scontato esisto positivo del referendum, sempre che non voglia rifugiarsi nella linea rinunciataria del concedere la libertà di coscienza.

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2. Se fossi in Zingaretti, mi preoccuperei del ripetuto vulnus costituzionale che a tutt’oggi ha provocato il governo giallo-rosso, lascito preoccupante, utilizzabile domani da un successivo governo di qualsiasi colore, se ci fosse un presidente della Repubblica altrettanto tollerante come quello attuale. L’inventario è lungo, con al primo posto l’invenzione di un meccanismo finalizzato a bypassare il rigido cordone protettivo previsto dal nostro testo fondamentale per i diritti di libertà: un decreto-legge che dispone una delega in bianco ad una fonte regolamentare, il decreto del presidente del Consiglio dei ministri, non passibile di controllo da parte del presidente della Repubblica e della Corte costituzionale, peraltro esposto al ricorso al giudice amministrativo e all’esame del giudice penale. Non occorre insistere, esistendo al riguardo un ampio consenso critico da parte del mondo giuridico, ma viene in rilievo anche l’uso e l’abuso di tale fonte, in ragione di una emergenza epidemica, non solo attuale ma anche potenziale. Sì che c’è stata, nella pur costante diffusione degli asintomatici prodotta dai c.d. rientri, una riduzione quasi a zero degli ospedalizzati e dei ricoverati in terapia intensiva; ma ciò non ha impedito una proroga dell’emergenza fino al 15 d’ottobre, sia pure, questa volta, con il supporto della maggioranza parlamentare: a stretto rigore, sono possibili, oltre a misure restrittive della propaganda per le elezioni regionali del 20 e 21 settembre, anche un nuovo lockdown e, all’estremo, un rinvio delle consultazioni.

Buon secondo del nostro inventario è il ricorso a quel procedimento per i reati ministeriali sostituito a quello originariamente previsto dalla Costituzione estremamente più garantista nella tutela dell’autonomia della politica rispetto alla magistratura. Così il comportamento dell’ex ministro dell’interno Matteo Salvini di divieto temporaneo di ingresso e sbarco dei clandestini è stato considerato da due Tribunali dei ministri sequestro di persone, scorporandolo del tutto dal conforme indirizzo del governo in tema di politica immigratoria; bene, ma in entrambe le volte al Senato è mancata quella maggioranza assoluta necessaria a bloccare l’iniziativa giudiziaria. Ora da qui in poi ogni atto commissivo o omissivo tenuto da un ministro utilizzando o no il suo potere regolamentare è suscettibile non solo di un ricorso al giudice amministrativo ma anche di un intervento del giudice penale, nell’esercizio del rispettivo potere giurisdizionale. In questo ultimo caso, una volta che il Tribunale dei ministri abbia individuato un reato, l’autorizzazione della Camera di appartenenza dipende dall’essere quel ministro ancora in carica o comunque supportato dalla maggioranza in essere, risultando allora negativa, altrimenti sarà inevitabilmente positiva, come insegna l’esperienza. Se per negare l’autorizzazione a procedere occorre la maggioranza assoluta, questa non può certo essere posseduta dall’opposizione cui l’ex ministro ormai appartenga.

Ma l’espropriazione della politica da parte della magistratura, amministrativa e penale, è ormai del tutto evidente, avendo acquisito una quotidiana conferma, anche se si deve dare atto che essa è chiamata in causa o comunque coltivata da una politica incapace di svolgere quella funzione di mediazione essenziale in una democrazia. Così, ormai, i conflitti di attribuzione fra Stato e Regioni non sono più risolti dalla Corte costituzionale, ma dalla magistratura amministrativa, come da ultimo con riguardo all’ordinanza del presidente della Regione siciliana; e così, ancora, i comportamenti ministeriali non sono più sanzionati politicamente dalle Camere, ma giudizialmente dalla magistratura penale, come ora con rispetto alla mancata realizzazione della zona rossa di Alzano.

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3. Da qui a poco più di tre settimane la parola ritornerà al popolo sovrano, chiamato ad esprimersi sui governi di sei regioni e sulla riforma costituzionale della riduzione dei parlamentari. Scontato il risultato positivo del referendum, tenuto conto che non c’è il limite costituito da un numero minimo di partecipanti, meno quello delle elezioni regionali, anche se i sondaggi sembrano anticipare un 4 a 2 per il centrodestra. Non credo assolutamente che il Governo cadrà, chiamando a soccorso la presenza di una pandemia non ancora vinta e di una crisi economica e occupazionale, cui dare risposta attraverso la predisposizione di progetti per il Recovery Fund. Già il risultato positivo del referendum, ancor più se rafforzato da una affermazione del centrodestra alle elezioni regionali, suonerà come una delegittimazione dell’attuale Parlamento, rendendone problematica la sopravvivenza fino alla fine della legislatura, ma soprattutto discutibile l’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Certo, la parola spetta a Mattarella, che a mio avviso, per la stessa origine e appartenenza partitica, sembra condividere la diffidenza verso il centrodestra comunque composto e guidato, sì da pensare di tenere in scacco l’eventuale maggioranza Lega-Fratelli d’Italia-Forza Italia con la nomina di un successore in piena continuità con lui e con la camicia di forza di un Recovery Fund già definito nel dettaglio. Ma, viene da chiedersi, a prescindere dalla pandemia, con cui bisognerà convivere senza abbassare la guardia, come si usa ripetere ossessivamente, è condivisibile l’idea che una esposizione debitoria e una programmazione condizionata dall’Ue, entrambe destinate a far compagnia non solo a noi, ma anche ai nostri figli e nipoti, siano decise da un Parlamento delegittimato?

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