Film

“La zona d’interesse”: l’Olocausto come non lo avete mai visto

Dopo tante riflessioni sulla banalità del male, finalmente qualcuno è riuscito a darle forma in un film: il regista Jonathan Glazer

La zona d'interesse (trailer)

La zona d’interesse di Jonathan Glazer è il cinema al suo meglio. Qualcuno potrà pensare: “un altro film, l’ennesimo, sulla Shoah”. Il lavoro del regista britannico, però, è diverso da tutte le precedenti pellicole sul tema. Innanzitutto, in questo film, non c’è quasi nessuna violenza, per scovarla bisogna osservare e non limitarsi a guardare.

Dopo tante riflessioni sulla banalità del male, qualcuno, finalmente, è riuscito a darle forma. Glazer, nella rappresentazione del nazismo, non cede ad alcuna estetica torbida né feticizza l’armamentario dei carnefici. Siamo distanti anni luce da opere come La caduta degli dei o Il portiere di notte.

La zona d’interesse si apre con dei suoni inquietanti e potenti, che ricordano treni sferraglianti, respiri affannosi e voci distorte, suoni non dissimili da quelli che si posso udire nell’opera Ricorda cosa ti hanno fatto in Auschwitz, del compositore Luigi Nono; poi, appare il titolo del film, in un carattere minimalista, probabilmente sans-serif, bianco su sfondo nero, che svanisce lentamente. Lo schermo rimane nero per alcuni minuti. Anche il suono permane. Ci viene suggerito che dobbiamo ascoltare e non solo vedere.

La trama

Gli uccelli cinguettano. La famiglia Höss sta facendo un picnic sulle rive di uno specchio d’acqua scintillante. L’immagine è nitida e luminosa. Puro piacere domestico. Il gruppo si alza. Due graziose e teutoniche bambine camminano coi loro cesti in un rigoglioso sottobosco alla ricerca di bacche da raccogliere.

Gli Höss tornano a casa nella notte. I fanciulli, in macchina, bisticciano. Giunti a destinazione sono accolti dall’abbaiare di un cane, anch’egli immagine di fedeltà e calore familiare. I latrati dell’animale si confondono con qualcosa di sinistro e minaccioso: delle grida che arrivano attutite. Quanto sono lontane quelle urla? È difficile da calibrare. C’è un sommesso mugghio industriale. Marito e moglie si ritirano nei loro letti, separati.

Il giorno successivo, il capofamiglia, bendato, è condotto per mano dai figli davanti al suo regalo di compleanno, una canoa. La vernice è ancora fresca e se ci si sedesse sopra, macchierebbe la sua uniforme inamidata. Chiede la provenienza della canoa. Hedwig, la moglie, lo rassicura sulle sue fonti. Possiamo facilmente indovinarne la provenienza, come possiamo indovinare quali mani l’hanno riverniciata. 

Al di là di questo idillio domestico, s’innalzano torri minacciose e filo spinato. Rudolf Höss parte a cavallo per la sua giornata lavorativa. I bambini dicono il loro “sieg heils” e vanno a scuola. Hedwig, tenendo in braccio il suo bambino, passeggia nel suo vasto giardino e sussurra al piccolo i nomi dei fiori. Un servitore cencioso appende lenzuola bianche, candide, su dei fili.

Rudolf Höss è stato il più longevo ed efficiente comandante di Auschwitz. Con la sua famiglia visse in una villa che condivideva un muro con il campo di sterminio dove furono assassinati più di un milione di esseri umani. La villa era piuttosto vicina alle camere a gas e ai crematori, come mostrano le mappe. La descrizione, meticolosa, persino clinica, del regista Jonathan Glazer del periodo trascorso dagli Höss ad Auschwitz è supportata da ricerche approfondite.

La banalità del male

Un lavoratore vestito di stracci, simile a uno zombie, spinge una carriola verso l’ingresso della villa. L’uomo consegna dei pacchi di generi alimentari avvolti nella carta e una grande borsa di tela. Hedwig chiama un gruppo di domestiche nella sala da pranzo e stende della biancheria di seta. “Prendetene solo uno a testa”. Le donne, con gli occhi bassi e i volti inespressivi, esaminano le sottovesti.

Al piano superiore, nella sua linda camera da letto, davanti a uno specchio, Hedwig trae fuori dalla borsa di tela il suo contenuto: una lussuosa pelliccia di visone. Tocca l’orlo del cappotto, fruga nelle tasche e vi trova un rossetto. Spanderà il rossetto di un’ebrea assassinata sulle sue pure labbra ariane? La signora Höss annusa il rossetto; saggia il colore e la consistenza del rossetto sulla sua mano. Alla fine se lo strofina sulle labbra sottili. Hedwig commette quella violazione delle leggi sulla purezza e sull’igiene razziale.

Consegna il cappotto alla sua serva, Aniela Bednarska, e chiede che venga pulito. Gli ebrei condannati, a volte, nascondevano oggetti di valore negli orli dei cappotti; probabilmente è per questa ragione che, poco prima, ha stropicciato l’orlo.

Hedwig pranza con le mogli di altri nazisti. Spettegolano sullo shopping in “Canada”. Il film non si ferma a spiegare cos’era veramente il “Canada”. Il Canada, nel lessico di Auschwitz, era il magazzino dei beni rubati ai prigionieri.

Fuori, Rudolf rientra per un incontro con due venditori. Sono Fritz Sander e Kurt Prufer. Rappresentano la Ja Topf und Söhne, un’azienda fondata nel 1878, la più grande fornitrice di crematori per i campi di sterminio. Illustrano allo stimato comandante il progetto di un nuovo crematorio, con cui ancora più esseri umani potranno essere inceneriti in minor tempo.

È notte. Höss fuma un sigaro che brilla rosso nel buio. Guarda verso il campo di concentramento, la bocca della ciminiera avvampa. Di sopra, in casa, suo figlio maggiore, Klaus, supino nel suo letto a castello esamina, alla luce di una torcia, dei denti d’oro. Il suo fratellino Hans esce dalla cuccetta inferiore e chiede di poter guardare. Klaus, fraterno, mostra i suoi “giocattoli”.

Le scene seguenti sono riprese con una telecamera a infrarossi. Bianco e nero, dunque. Nella notte, Aleksandra Bystron-Kolodziejczyk, una ragazza polacca in bicicletta, porta con sé un sacco. La ragazza, esistita veramente, si avvicina a un’area dove i detenuti del campo hanno lasciato gli strumenti di lavoro e vi lascia delle mele. Il volto della ragazza si illumina sullo sfondo scuro del campo e dei treni in arrivo. Aleksandra brilla, letteralmente, di bianco nella mezzanotte del mondo.

Alcune scene più tardi, vediamo Höss pescare nel fiume, mentre poco lontani due dei suoi figli sguazzano a riva. Una marea grigia si avvicina alle sue spalle. Tira fuori dall’acqua un osso. Si tratta della cenere e delle spoglie sbriciolate scaricate dai crematori. In preda al panico, Rudolf si precipita dai suoi figli. Nella villa, i servi lavano i bambini con acqua calda. Höss si toglie la cenere dal naso. Aniela si vede costretta a pulire la vasca in cui hanno fatto il bagno i bambini. Si arresta in silenzio prima di farlo. È facile immaginare il suo disgusto.

Seguono altri momenti, altre situazioni, dove il male penetra tra le pieghe di una rispettabile famiglia tedesca, ariana, rurale. Linna, la madre di Hedwig, venuta a trascorrere l’estate ad Auschwitz, si alza di notte e guarda fuori dalla finestra il bagliore emesso dei crematori. Sembra angosciata.

Ancora una volta vediamo Aleksandra attraverso la lente di una telecamera notturna. Sta distribuendo pere in un luogo dove i prigionieri di Auschwitz potrebbero trovarle. Mentre la vediamo, sentiamo la voce di Rudolf che legge una favola della buonanotte alle figlie, si tratta di Hansel e Gretel.

“Gretel capisce cosa ha in mente la strega“, legge il torturatore, mentre la giovane polacca lascia cedere le sue pere vicino alle pale dei prigionieri. Aleksandra scopre una lattina sepolta nella terra e la porta via con sé.

La lattina trovata contiene una notazione musicale e il testo di sua canzone, “Raggi di sole”, del poeta yiddish Joseph Wulf. Sentiamo, fuori campo, la vera voce di Wulf che legge il testo da lui composto: “Raggi di sole illuminano e riscaldano / Corpi umani, vecchi e bambini / E noi rinchiusi qua dentro / Però il nostro cuore non è freddo”. Aleksandra la suona al pianoforte.

Lo sterminio organizzato

Più avanti, il film ci porta in una gremita, ma ordinatissima sala conferenze. I comandanti dei campi di concentramento, presieduti da Höss, devono organizzare lo sterminio di 700.000 ebrei ungheresi. Rudolf telefona a Hedwig e le rivela la sua soddisfazione per essere stato incaricato di quella operazione: “ho sentito Himmler chiamarla operazione Höss“.

La moglie risponde che è notte fonda e che ha bisogno di andare a letto. Riattacca il telefono. Non sappiamo se sia turbata dal fatto che un omicidio di massa abbia preso il nome da suo marito, o se sia semplicemente infastidita dal fatto che suo marito le abbia telefonato nel cuore della notte.

Rudolf scende una scala. Si ferma sul pianerottolo di una rampa di scale. Si china per dei conati di vomito. Scende un’altra rampa e questa volta vomita sul serio. Si guarda intorno, controlla se qualcuno l’abbia visto. È solo. Sembra guardare verso il pubblico, sembra che stia scrutando il buio degli uffici, un’oscurità penetrata da un piccolo foro di luce.

Quello spazio nero si rivela essere una porta, che lentamente si apre. Donne delle pulizie polacche, in camice blu, entrano nella camera a gas di Auschwitz. Spazzano il pavimento e il crematorio progettato dalla Topf und Söhne. Sono delle inservienti. Entrano nelle stanze del museo dove dietro un vetro sono raccolti i bagagli degli ebrei. Le donne delle pulizie puliscono il vetro. La cinepresa torna su Höss, ci sta ancora guardando. Riprende la sua discesa.

Verso l’impersonalità

La parabola di Höss incarna quella che il filosofo ceco Václav Bělohradský chiama “escatologia dell’impersonalità”. Il progressivo imporsi di un potere operante fuori dalla coscienza, originato da una finzione ideologica, che annulla la moralità e il pensiero. Una macchina entro cui è entrato volontario e che, giorno dopo giorno, lo disumanizza.

Si ha l’impressione, guardando il film, che più il male si fa radicale, più diviene burocratico, anonimo, ordinario. Il comandante di Auschwitz tende, per usare una raggelante definizione di Alain Besançon, “asintoticamente verso l’impersonalità”. In Auschwitz, infatti, “non ha luogo il Santo Volto”, come ha scritto Primo Levi.

Tutto, in lui, è ridotto a “possibilità tecnica” sganciata da ogni altra considerazione. Osservando dall’alto un ricevimento di ufficiali delle SS, si scopre a riflettere su quanto sarebbe difficile gasare tutti i presenti per via dell’alto soffitto. Höss è totalmente assorbito dalle questioni procedurali. Sembra interessato solo più a come uccidere efficacemente.

A tal proposito, il totalitarismo, come scrisse Václav Havel, è “lo specchio convesso di tutta la civiltà moderna”, con la sua volontà di organizzare e razionalizzare, fino a rendere superflua ogni valutazione morale.

Per queste ragioni, come per altre, il film di Glazer risulta difficile da recensire. Il regista racconta e analizza al tempo stesso. Le scene sono ricche di opportunità interpretative, che ne fanno un capolavoro. Vederlo è il solo modo per comprenderlo pienamente.

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