O, America!

Trump avanti, ma ecco perché non può sottovalutare Ron DeSantis

Scelta tra due guerre, entrambe sacrosante. Nessuno ha compreso la minaccia woke meglio di DeSantis e nessuno come lui è passato all’azione con la forza della legge

O, America!

Credo che non ci sia un solo conservatore americano che non ricordi a memoria le famose parole di Ronald Reagan: “The nine most terrifying words in the English language are, ‘I’m from the government, and I’m here to help’” (“Le nove parole più terrificanti nella lingua inglese sono: ‘Sono del governo e sono qui per aiutare’”).

La minaccia woke

The Gipper le pronunciò mentre l’America stava annegando in una tassazione punitiva e in una gabbia di regole e contro-regole spaventosa ed esagerata – almeno per gli americani, bazzecole per noi italiani, ça va sans dire. Ebbene, hanno perfettamente ragione coloro i quali osservano che oggi come oggi la maggiore minaccia che il popolo americano deve affrontare è la metastasi dell’ideologia woke, sponsorizzata a suon di miliardi di dollari dalle élite che imperversano in tutte le principali istituzioni della vita politica e civile americana.

Altrettanto indubitabile è il dato di fatto che nessuna figura politica di rilievo in tutta l’America ha compreso meglio di Ron DeSantis questa realtà. Non solo: egli è l’unico che sia passato all’azione con tutto il peso e la forza datagli dagli elettori, e questo ripetutamente e senza riserve.

Che si tratti di Teoria critica della razza o di indottrinamento dell’ideologia di genere nelle aule scolastiche e universitarie o nei consigli aziendali, DeSantis ha adottato misure decisive per difendere la sanità mentale della civiltà e limitare o proscrivere apertamente la diffusione dei principi corrosivi del wokeismo.

La legge sui diritti dei genitori

Ovviamente i critici “de sinistra” – ma anche qualche libertarian – hanno levato i loro alti lai accusandolo di aver implementato un’agenda “di estrema destra” nel Sunshine State (la Florida, stato di cui DeSantis è governatore dal 2019). Per dire, la legge sui diritti dei genitori nell’istruzione, che la sinistra ha immediatamente soprannominato la legge Don’t Say Gay (“Non dire gay”), ha fatto stracciare le vesti a sindacati e attivisti.

Il disegno di legge originale vietava agli insegnanti della Florida dall’asilo alla terza elementare di discutere l’orientamento sessuale e l’identità di genere, ma poi – orrore! – è stato ampliato in modo da coprire gli studenti fino all’ottavo anno, e infine – una tragedia! – ad aprile è stato esteso all’intero percorso (K-12)!

Ad aggravare la situazione, la legge prevede – udite! udite! – che gli insegnanti che violano il divieto potrebbero perdere le loro licenze di insegnamento, per non parlare della messa al bando dei libri per bambini che menzionano questioni Lgbtq!

Lo scontro con Disney

Ma il “Don’t Say Gay” non ha fatto indignare soltanto sindacalisti e attivisti: la componente Lgbtq dell’azienda più importante e maggior datore di lavoro della Florida, The Walt Disney Company, si è messa di traverso e ha preteso che i suoi vertici disapprovassero ufficialmente la legge. Il ceo Bob Chapek, che inizialmente voleva tenere l’azienda fuori dalla diatriba, non ha potuto opporsi ai suoi più focosi dipendenti… La risposta del governatore non si è fatta attendere:

Se la Disney vuole la guerra, ha scelto la persona sbagliata. Sono stato eletto per mettere al primo posto il popolo della Florida e non cederò mai il comando a una società con sede in California.

Ergo, via i benefici di cui l’azienda dispone, annullamento dello statuto speciale che le consente di creare infrastrutture e costruire senza chiedere autorizzazioni all’amministrazione statale. Una decisione, quest’ultima, che poi è rientrata (perché stava provocando spiacevoli ricadute sui cittadini-elettori, tipo costi di gestione municipali lievitati e debiti accresciuti), ma previa sostituzione del consiglio amministrativo del distretto nel quale ha sede l’azienda, con figure vicine al governatore, onde sottrarne il controllo alla Disney.

Una guerra senza esclusione di colpi, tipo quello inferto da Christopher Rufo – attivista conservatore nonché, secondo alcuni, lo Steve Bannon di Ron DeSantis – nel corso di un talk show, con la divulgazione di un documento riservato nel quale un produttore della Disney chiede ai collaboratori di aggiungere un po’ di “diversità” in un cartone animato, a prova del fatto che vi è un intento preciso da parte della compagnia di sessualizzare i bambini.

O tipo la minaccia da parte di DeSantis di far costruire una prigione vicino al parco, ovviamente per allontanare i visitatori. E la storia va avanti, con la Disney che recentemente si è ritirata da uno sviluppo pianificato da 1 miliardo di dollari vicino a Orlando (che avrebbe portato 2.000 posti di lavoro nello stato) e che ha messo la cosa in mano agli avvocati parlando di “una precisa campagna di ritorsione politica” che minaccia “gli affari dell’azienda”.

In effetti, le accuse di essere “anti-business” si sprecano: persino un candidato alle primarie del Gop per la presidenza, l’imprenditore Vivek Ramaswamy, ha preso posizione contro il governatore. E Donald Trump non ha perso l’occasione per gufare: DeSantis verrà “distrutto completamente dalla Disney”.

Ma la vicenda Disney non può essere declassificata a scivolone o, peggio, errore madornale, come vorrebbero i detrattori del governatore, Trump in testa. Piuttosto è la dimostrazione concreta che DeSantis ha colto meglio di chiunque altro lo stato di degrado di quel mondo del business che egli, secondo i suoi avversari, starebbe tradendo: un mondo che è stato penetrato in profondità dall’ideologia woke e che, per essere salvato da se stesso, ha bisogno di una cura radicale, una guerra destinata a lasciare sul terreno le sue vittime.

La “Hillsdale del Sud”

Ad emblematizzare la rivoluzione conservatrice di DeSantis c’è la sua “bizzarra” (agli occhi dei suoi avversari) intenzione di fare del New College of Florida una “Hillsdale del Sud, con riferimento al meraviglioso college privato, conservatore e cristiano, del Michigan.

Il sunnominato Christopher Rufo, una delle nuove nomine di DeSantis nel consiglio del New College, ha detto a Michelle Goldberg del Times che si punta ad una “ristrutturazione dall’alto” del curriculum della scuola, e ha suggerito che professori e studenti che non fossero in linea con i cambiamenti, potrebbero tranquillamente andarsene. “Se riusciamo a trasformare questa scommessa ad alto rischio e ad alto rendimento in una vittoria, vedremo i legislatori statali conservatori iniziare a riconquistare le istituzioni pubbliche in tutti gli Stati Uniti,” ha affermato Rufo.

La firma di DeSantis su un disegno di legge che consente la maggior parte degli aborti solo durante le prime sei settimane è parte di questa rivoluzione. E sarà sicuramente oggetto di scontro nella campagna elettorale appena cominciata. Una campagna che secondo i sondaggi non darebbe scampo al governatore della Florida, a tutto vantaggio di Donald Trump.

Trump non può sottovalutarlo

Ma, attenzione, come ha titolato giustamente il conservatore New Yok Post il giorno dopo l’annuncio su Twitter, “Trump non può prendere sotto gamba Ron DeSantis: non ha mai affrontato un candidato Gop come questo prima d’ora”. “DeSanctimonious” è l’etichetta preferita da Trump per il governatore della Florida, giocando con la somiglianza tra il cognome del suo “nemico” e la parola sanctimonious, che sta più o meno per “moralista ipocrita” e “fariseo”.

Ma la tecnica beffarda usata da Trump con “low energy” (bassa energia) Jeb Bush non funziona, scrive il NYP, perché Ron DeSantis non è Jeb Bush. È “l’avversario del Gop meglio finanziato, di maggior successo e più preparato che abbia mai affrontato”. Uno che, a giudicare dai suoi primi giorni sulla pista, “punta a capovolgere il copione e costringere Trump a difendere il suo operato alla Casa Bianca. È una mossa audace che mira a minare le affermazioni di Trump di essere un presidente di successo nonostante sia stato ingiustamente perseguitato dai media e dai Democratici”.

Scelta tra due guerre

Ma, al di là di quelle che potranno essere le inevitabili e spesso stucchevoli schermaglie della campagna elettorale – tipo DeSantis è appoggiato e finanziato da neocon e RINOs (Republicans in name only), e “quindi” è un fake, e amenità del genere, o, per converso, Trump è bollito, o un pazzoide, un golpista mancato e giù insolenze che chi più ne ha più ne metta – semplificando al massimo la scelta che gli elettori del Gop dovranno fare è tra due visioni dell’America non distantissime tra di loro, ma neppure troppo vicine: quella trumpiana che già conosciamo bene e quella desantisiana, tutta orientata ad una lotta senza quartiere, costi quel che costi, contro l’ideologia woke.

Una scelta, se vogliamo, tra due guerre: quella trumpiana (e un po’ tribale) alla “palude” di Washington D.C., che va prosciugata senza se e senza ma, e quella essenzialmente culturale e filosofica di DeSantis. Certo, l’ideale sarebbe non dover scegliere, perché entrambe sono, a modo loro, sacrosante, ma a quanto pare non si può.

Il dilemma dei dilemmi, in ogni caso, è quale delle due “offerte” abbia maggiori probabilità di vittoria alle presidenziali del novembre 2024. Per ora sappiamo solo che alle primarie il favorito sembra essere Trump. Sempre che DeSantis non riesca a ribaltare i pronostici, come il NYP ipotizza, e non senza validi argomenti.

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