…Diceva un vecchio marinaio: fra noi gente di mare e la gente di terra, i contadini, esiste una differenza profonda. Noi abbiamo l’orizzonte, loro la linea dei monti. Noi possiamo sognare che qualsiasi cosa accada quando l’orizzonte farà comparire il futuro, loro no. Ma non so se sia un vantaggio per noi. Per le nostre menti si, per i nostri cuori non credo. Chi ha una linea frastagliata davanti agli occhi, al tramonto e all’alba, può pensare in pace che il mondo finisca lì, e che quindi il suo mondo sia il mondo. I nostri cuori di gente di mare sono invece in perenne attesa di ciò che non conosciamo e sogniamo di poter conoscere…
Strano Paese, l’Italia, che sul mare rinnega il passato e sui porti si nega il futuro. E compie questo abominio con un disinteresse sconcertante, quello stesso disinteresse frammisto a ignoranza che ha spinto la maggior parte degli industriali della Pianura Padana ad affidare il loro destino e la loro capacità di competere a porti del Nord Europa, distanti più di mille chilometri e, quel che è peggio, parte integrante di sistemi economici concorrenti.
È per questi motivi che la pretesa di scrivere degli uomini che hanno tentato di risvegliare quel gigante addormentato che è l’Italia del mare, appare da subito aleatoria, vagamente autoreferente, perché dei porti, diciamolo una volta per tutte, con la sola eccezione di chi nei porti vive o lavora, non frega proprio niente a nessuno. Per quasi un secolo i porti sono stati cellule anomale di un tessuto economico che li considerava un optional, peraltro disastrosamente costoso e utile a mantenere solo occupazione assistita. E solo negli ultimi due anni sulla spinta anomala del Covid con conseguente rottura della catena logistica, quindi di terremoti geopolitici tutt’ora in atto, giorno dopo giorno l’Italia, sembra aver riscoperto il mare.
Negli annali del Consorzio autonomo del porto di Genova, antenato dell’Autorità di Sistema Portuale dei nostri giorni, si trova ancora cenno dei magazzini destinati a ospitare ostruzioni retali. Per carità nulla di sanitario o addirittura chirurgico, come il nome farebbe supporre. Le ostruzioni retali erano enormi reti in acciaio che avrebbero dovuto essere calate all’imboccatura del porto per impedire ai sottomarini nemici di tentare incursioni e privare il Paese della sua più importante risorsa strategica. Reti che avrebbero dovuto prevenire attacchi e vietare al nemico di danneggiare banchine, sradicare bitte di ormeggio, abbattere quelle gru che con gli anni sono diventate invece, senza il bisogno di incursioni nemiche, solo una scomoda e rugginosa componente del panorama di alcune grandi città marittime italiane. Con il paradosso strategico, e al tempo stesso esempio probante, che oggi, in un clima di tensione internazionale crescente e di rischio terrorismo, non esiste nei porti italiani alcun sistema di vigilanza sottomarina.
Improvvisamente con la crisi nel Mar Nero e quindi nel Mar Rosso, l’Italia sembra aver riscoperto, almeno a parole, l’importanza dei traffici marittimi e quindi dei porti per un Paese di prevalente trasformazione industriale, che importa materie prime ed energia al punto da essere totalmente dipendente da Stati e centri di potere economico non controllati e non controllabili. E quindi esporta via mare oltre il 70% dei suoi prodotti finiti.
Ma i numeri non sono sufficienti né a creare cultura né a ridare vita alla memoria o alla storia: è sufficiente sforzarsi di scorrere la maggioranza dei libri di testo delle scuole italiane, inclusi i licei, per verificare l’assoluta insignificanza dei porti anche all’interno di una materia, come la geografia e la geografia economica che ha subito la grande epurazione degli anni settanta tacciata di essere simbolo di puro nozionismo.
I porti anima della storia
I porti, pressoché ovunque nel mondo, sono invece storia, sono anima della storia, sono persino l’unico terreno fertile di una convivenza fra etnie e religioni che ha trovato sulle banchine, nei vecchi magazzini, quell’interesse comune che nasce dai commerci e dallo scambio di merci e opinioni.
L’affetto che circonda i porti, nelle città di Amburgo o Brema o persino Lubecca, dove in ogni vetrina fa capolino fra prodotti diversi un segno della portualità e dei traffici marittimi: una piccola àncora fra le maglie e i maglioni impilati in bella mostra in un negozio del centro, o un sestante fra i best seller della settimana in libreria, o ancora vecchie foto tinta seppia sulle pareti di un ristorante. Non solo simboli, bensì prove concrete di un legame che è anche riconoscimento quotidiano della motivazione esistenziale delle città porto, elemento trainante e rispettato dell’economia di grandi territori produttivi.
Sembra quasi che fra la storia delle Compagnie delle Indie e quella del Paese che fu frutto dell’ingegno e del coraggio delle Repubbliche Marinare si allunghi un fossato culturale: poco serve se proprio l’Italia dei porti e del mare abbia lasciato memoria di sé in tutte le città marittime del Mediterraneo; poco o nulla interessa la memoria dei quartieri dei mercanti genovesi o veneziani che in città come Istanbul, Nicosia, Aleppo non hanno mai perso il loro fascino antico.
L’Italia per quasi un secolo sembra essersi dimenticata del mare e dei suoi porti, quasi avesse prevalso sullo spirito mercantile, quell’istinto di difesa timorosa che ispirava tante comunità costiere impegnate più a edificare torri di sorveglianza per garantire la fuga prima dell’arrivo dei pirati saraceni, che arsenali o quartieri di commercio.
La storia marittima e marinara è scomparsa dalle scuole, dove neppure il politically correct ha colto l’importanza delle comunità multietniche nel porto mediceo di Livorno, dove le leggi Livornine istitutive del primo porto franco garantivano libertà di commercio, ma anche di culto a ogni popolazione e a ogni ceppo etnico che assicurasse al porto toscano una crescita di commerci. E che dire della storia dimenticata e accuratamente occultata per ragioni di bassa bottega (la costruzione di un depuratore da parte di cooperative edili) della prima moschea costruita in Europa, nel porto antico di Genova, per garantire libertà di culto e tenere tranquilli i prigionieri saraceni o turchi catturati dalle galee della Repubblica?
La bandiera di San Giorgio
O ancora della bandiera sempre della Repubblica di Genova, prestata e poi acquisita per una sorta di usucapione forzosa dalla Corona britannica, le cui navi a poppa sventolavano la Croce di San Giorgio per porsi al riparo dagli attacchi dei pirati che mai e poi mai avrebbero osato avvicinarsi ai vascelli commerciali della Repubblica genovese?
E perché non ricordare la Prima crociata e l’assedio di Gerusalemme, vinto grazie ai legni delle navi salpate da Genova e smantellate nel porto millenario di Giaffa?
Storie antiche, si dirà. Ma perché dimenticare anche quelle migliaia di lavoratori italiani che accompagnati da mogli e figli e da povere valigie di cartone, attendevano in coda in piazza De Ferrari a Genova o a Napoli un biglietto per le Americhe, per l’Australia o per l’Argentina, pronti ad affrontare l’ignoto per costruire un futuro.
E la linea filante dei transatlantici italiani capaci di conquistare il rispetto e l’ammirazione di mezzo mondo, facendo base nei porti di un Paese che aveva prestato le sue banchine a imperi, non solo quello borbonico, ma anche a quello austroungarico che in Trieste, aveva aperto una porta commerciale essenziale per il suo futuro nel mondo.
L’Italia terrigna e un po’ montanara dei Savoia ha rimosso progressivamente la sua origine più autentica, quella che un grande imperatore come Traiano aveva scoperto per tempo, individuando proprio nei porti lo strumento non solo per un’espansione, ma anche per una stabilizzazione geopolitica del Mediterraneo.
Nulla. L’Italia si è dimenticata ogni giorno di più del mare e dei suoi porti, scordando anche i capitani coraggiosi come Angelo Costa che sul mare aveva edificato un’immagine industriale.
Solo il tempo testimonierà se il timido recupero di interesse di questi ultimi anni e in atto in questi mesi sarà un fuoco di paglia destinato a spegnersi con le onde della prima mareggiata autunnale. In ogni caso resterà la certezza di una constatazione amara: i nomi di chi in qualsiasi altro settore diverso dai porti sarebbero scritti nel Pantheon dell’impresa, dell’economia, dell’interesse collettivo, sono stati tutti dimenticati. Castelli di sabbia costruiti sul cemento delle banchine portuali, hanno conquistato timidi e sporadici titoli di giornale quando sono diventati solo memoria.
Il tentativo di questo breve pamphlet è quello di fare giustizia. Prima di tutto nelle città portuali che hanno dimenticato origini e motivazioni esistenziali, quindi in tutte quelle città industriali e commerciali che ignorano la provenienza delle merci che ne garantiscono la sopravvivenza; infine, in quelle Università che hanno tradito e continuano a tradire i loro obblighi con la storia ma anche con il futuro dei giovani incapaci di cogliere nuove opportunità e di riscoprire vecchie vocazioni.
Il tentativo è anche quello di ricomporre i tasselli di storie singole, parti integranti di un mosaico portuale alla ricerca di autori nuovi. Personaggi dai nomi dimenticati, mai ricordati e confinati nelle testimonianze lontane di chi ne ha vissuto la grandezza e le enormi difficoltà che hanno dovuto superare in lotta con una politica ottusa, con una struttura industriale convinta di poter fare a meno del mare e con una burocrazia capace di strangolare chiunque volesse osare.
Con molti presidenti di porti, di cui si racconta volutamente in modo sintetico la storia, ho condiviso personalmente ansie, sconfitte, compromessi, ma anche quei momenti di eccezionale vitalità che in taluni casi fanno di loro veri e propri giganti sconosciuti forti di visioni. Uomini, e donne, che hanno saputo sognare anche quando la realtà era la negazione dei loro sogni e la ruggine, che è il grande nemico degli scafi delle navi così come delle gru o delle bitte, sembrava avere il sopravvento.
Storia di coraggio quotidiano
È quindi una storia di coraggio quotidiano, ma anche di inventiva, di capacità di applicare modelli diversi (inclusi quelli industriali) a una realtà del tutto particolare, che della sua unicità, spesso in modo strumentale, si è fatta vanto e scudo, tutelando più rendite di posizione che capacità di intraprendere o di lavorare.
Molti si chiederanno sulla base di cosa ho compiuto la scelta dei nomi da ricordare, molti lamenteranno una selezione arbitraria. Me ne assumo la piena responsabilità, ma con l’occhio del giornalista, dell’inviato e prima ancora del cronista, ho maturato in tanti anni il fiuto che distingue la cronaca dalla storia, gli slogan dalla realtà, le parole dai fatti, la vulgata del politically correct in grado di produrre solo orme sulla sabbia, dalle tracce della storia.
Alcuni non mi ameranno (ma è un destino con il quale ho dovuto fare i conti tutta la vita); purtroppo molti, fra quelli di cui ho condiviso le esperienze, non potranno leggere perché occupano altre hall of fame, in altre vite o in altri mondi. Certo, ammetto in anticipo, amicizia e stima hanno distorto la storia e forse mi hanno spinto a commettere errori di valutazione, ma, ribadisco, me ne assumo la responsabilità. Di quello che ho scritto in questo sintetico libro di ricordi, ho la certezza di chi è stato diretto testimone di fatti e di vicende certo più contorte rispetto alle sintesi che ne ho voluto dare.
La mia speranza è comunque quella di “insinuare un ragionevole dubbio” in grado di venare le certezze della politica e paradossalmente dell’impresa, dell’industria e degli opinion maker dell’economia, scivolando su quel piano inclinato che congiunge la terra con l’acqua salata e che fa dei porti il principale asset (e sembra quasi grottesco doverlo affermare) di un Paese di trasformazione industriale che affida ai traffici via mare e quindi ai suoi porti non solo più dell’80% delle sue importazioni e delle sue esportazioni, ma anche la sua più autentica capacità di competere.
L’Italia si appresta oggi a spendere più di tre miliardi nel potenziamento del suo sistema portuale. Ma è anche il Paese che ha consentito che il porto di Venezia venisse annientato dai dragaggi mai effettuati e da un luddismo ambientalista che ha negato le radici della città e la sua stessa ragione di esistere.
È il Paese che per quasi un secolo, ovvero dagli anni trenta in cui il porto di Genova fu protagonista della grande espansione a ponente e della realizzazione di gran parte delle infrastrutture ancora oggi operanti, si è dimenticato totalmente della portualità se non per realizzare strutture spesso clientelari, talora del tutto inutili, affidando poi alla fortuna e all’intuizione di pochi il recupero di cattedrali nel deserto come il grande Terminal di Voltri, realizzato per ospitare il carbone destinato a un’industria siderurgica già in declino e poi recuperato miracolosamente come Terminal container; destino analogo per Gioia Tauro, altro ecomostro edificato distruggendo ettari di agrumeti per ospitare un centro siderurgico mai realizzato e recuperato da Angelo Ravano, uno degli inascoltati padri della moderna logistica, per ospitare il primo grande transhipment port del Mediterraneo.
1. Continua …
Leggi tutti i capitoli:
- Un paese molto strano
- Isole infelici
- Tutti i porti dei Presidenti: Stefano Canzio
- Tutti i porti dei presidenti: Giorgio Bucchioni
- Tutti i porti dei presidenti: Cristoforo Canavese
- Tutti i porti dei presidenti: Paolo Costa
Si ringraziano per la collaborazione:
- ASSAGENTI
- Assarmatori
- Autorità di Sistema Portuale del Mar Ligure Orientale
- Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centrale
- Autorità di Sistema Portuale del Mar Tirreno Centro Settentrionale
- FEDERAGENTI
- Federlogistica
- Fondazione Slala
- GNV - Grandi Navi Veloci
- Gruppo Gallozzi
- Ignazio Messina & C.
- ISoMAR
- Nova Marine Carriers
- SAAR Depositi Portuali
- Shipping Mediterranean SeaLog
- Unione Utenti del Porto di Savona – Vado Ligure