Contrordine compà, nell’ottantesimo antifà, speciale edizione sobrietà, non ci sono più solo pastasciutte e samalelle, quest’anno si aggiunge il parmigiano partigiano, che solo a scriverlo le dita tremolano e il cor un po’ si spaura; non al Corriere, dove per l’occasione sparano senza nessun imbarazzo una storia che pare surreale, ma invece è grottesca.
È il film di quando alcuni partigiani reggiani o giù di lì fecero sparire tutte le forme disponibili per non darle al barbaro invasor, al crucco mangiapatate, e li nascosero nei fienili, negli scantinati, nei bunker, ma, soprattutto, nelle loro pance: “E alla fine mangiavamo solo formaggio e avevamo in bocca il gusto piccante della libertà”. Prosit. Voce narrante è una partigiana secolare, sai, di quelle facce un po’ così, quell’espressione un po’ così, che sembran tutti Furio Colombo, il partigiano che sussurrava agli Agnelli: “Una operazione straordinaria”, la ricorda la compagna partigiana antifà Teresa, l’Italia sottratta al giogo della tirannide, restituita alla libertà che per poco non finiva dritta in bocca all’Unione Sovietica, come speravano molti partigià, facendo sparire tutte le forme: a saperlo, ci risparmiavamo il piano Marshall, aka ERP, European Recovery Program, la solita storia delle elemosine, oggi si chiama PNRR, da cui il nomignolo un po’ sprezzante ai Paesi beneficiari, detti “erpivori”; ci risparmiavamo il dominio americano, la NATO, i terrorismi funzionali, tutte ‘ste robe qua, e infilavamo una via svizzera all’autonomia, anzi all’autarchia fondata sul formaggio.
Eh, già: “la guerra del formaggio”, così la rimembra la partigiana Teresa e così la racconta il Corriere. Al quale andrebbe chiesto, per inciso, come fa una signora 97enne ad avere la “voce flebile e piena di memoria” e, appena una riga sotto, “la voce ancora ferma” anche se “fa fatica, tossisce”: sono i misteri del giornalismo contemporaneo che si affida, giuro, ai vocali whatsapp dei reduci resistenziali, praticamente il Corriere dell’ANPI. Se ne dipana una narrazione epica a base di comitati, cellule, staffette formaggiaie, tutto pur di salvare la patria con la Resistenza casearia di cui parla già il Boccaccio, “eravi una montagna di formaggio Parmigiano grattugiato, sopra alla quale stavan genti che niuna altra cosa facevano, che fare maccheroni, e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi li gettavan quindi giù, e chi più ne pigliava, più se n’haveva”. La conclusione del Corriere però è molto più epicizzante, praticamente da supereroi di Stan Lee: “Aveva dentro [il sapore piccante del parmigiano partigiano] la forza di chi lo aveva messo in salvo, il coraggio della Resistenza, un atto di giustizia sociale compiuto con le mani e con il cuore”. E con lo stomaco.
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Fin qui la retorica propagandistica del parmigià partigià antifà sobrietà, e va tutto bene: solo che questo raccontino edificante è fuffa, sa di caglio: se hai origini di quelle parti, se tuo nonno era un “casèr”, un casaro mantovano, il casaro Merlotti Sergio, sai, per averlo ascoltato le volte millanta che tutta notte canta, che storie del genere costellano l’intera, dura fase della resistenza italiana e padana. La faccenda del formaggio, ma anche del bestiame, messo in salvo era all’ordine del giorno, solo che va messa nella giusta luce, anzi, per essere attuali, nel giusto contesto: da una parte imboscare i generi di necessità era una scelta obbligata se si voleva sopravvivere, poi poteva pure diventare un gesto di ribellione, di sabotaggio ai nazifascisti che pretendevano tutto, comunque una attività che stava nell’ordine delle cose, della guerra totale e civile. Con alcune varianti in funzione del momento, della situazione: a volte accadeva il contrario, forme e animali usati come merce di scambio per salvare la pelle propria o, non di rado, di fuggiaschi, di partigiani capitati la notte e nascosti come si poteva. Coi tedeschi che lo sapevano benissimo e fingevano di non saperlo, abbozzavano, meglio la forma di formaggio oggi del partigiano domani: sapevano che a quel punto la guerra era persa, questione di tempo e poco tempo, certi erano aguzzini fanatici ma altri stavano là travolti dagli eventi e anche loro cercavano di salvare il salvabile, di uscirne vivi e magari col minimo sindacale dell’onore.
Il parmigiano in terra padana era la moneta per corrompere e ottenere una sorta di tregua anticipata o almeno di primum vivere, nel segno del parmigiano, del grana si stabilivano a volte convivenze effimere, sospettose, ma che reggevano: soldati che venuti per conquistare andavano via conquistati dalla buona indole di quegli italiani che alla fine li risparmiavano e gli passavano pure da mangiare, e per giunta come si usa in paradiso. Quegli operosi lombardo-emiliani, partigiani o meno che fossero, stavano stabilendo le basi per un export che non avrebbe mai conosciuto flessioni.
Sono i risvolti minimi della Storia, che tanto minimi non sono mai, che poi aiutano, in prospettiva, a dimenticare o almeno superare. Se si pensa che appena 25 anni dopo, come dire un attimo, un niente, Italia e Germania si sfidavano a pallonate in una partita epica in Messico e quella guerra incruenta, quella disfida pacifica a suon di gol, di capovolgimenti, la voce strozzata di Nando Martellini, “non vi ringrazieremo mai abbastanza”, suggellava un’epoca nuova, quasi incredibile col senno del poi, se vista appena pochi anni prima: ma fu anche quella baraonda caotica, umana e disumana insieme, tra il ’43 e il ’45, a prepararla, a consentirla.
Non solo i piani ERP, non solo le grandi ricostruzioni economiche calate dall’alto. La Resistenza va, andrebbe serbata, serenamente più che sobriamente, come un momento fondamentale della civiltà italiana, un lampo che seppe contribuire a dischiudere al Paese prospettive di libertà e di benessere impensabili e invece ressero per i successivi, venti, trenta anni, prima di venire inghiottiti dalla grande disillusione di un carattere nazionale che non impara mai dalle sue tare, che torna sempre ai difetti di partenza, alla sua effettiva idiosincrasia per una democrazia matura, ordinata, tollerante.
Ma certi raccontini patetici non aiutano ad inquadrarla nella luce giusta e le escandescenze dei birilli e dei balordi (subito partite anche in questo 80ennale) non le rendono buon servizio, lasciano sempre quell’ombra pesante, di squallore, di opportunismo. Il parmigiano partigiano ebbe effettivamente un ruolo nella Liberazione, ma diverso da come il Corriere e gli altri fogli dell’ortodossia populista di sinistra che piace al Pd vorrebbero far credere nella loro narrazione per niente sobria, per niente onesta.
Max Del Papa, 26 aprile 2025
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