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Ad Aquisgrana prende forma l’Europa neocarolingia: l’Ue una finzione, paravento delle ambizioni di Parigi e Berlino

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Cosa rappresenta veramente il nuovo trattato franco-tedesco firmato ieri ad Aquisgrana dalla cancelliera Angela Merkel e dal presidente Emmanuel Macron? Un nuovo importante capitolo nelle relazioni pacifiche tra i due Paesi dopo gli spargimenti di sangue degli ultimi due secoli. Un’intesa che rinsalda e rilancia il cosiddetto asse o motore franco-tedesco. È certamente tutto questo, ma anche qualcosa di più e di diverso. Con questo accordo Francia e Germania gettano in qualche modo la maschera sulle loro ambizioni e piantano l’ultimo chiodo sulla bara dell’Unione europea, almeno per come è stata ingenuamente intesa e raccontata qui in Italia. Anche simbolicamente il luogo scelto per la firma, Aquisgrana, parla in modo davvero inequivocabile. Aquisgrana: capitale del Sacro Romano Impero, dove è sepolto Carlo Magno e dove per oltre cinque secoli gli imperatori venivano incoronati “Re dei Germani”. Carlo Magno ha certamente dato impulso all’idea di Europa, ma siamo sicuri che si sposi con la moderna idea federalista, liberale e democratica affermatasi nel secondo Dopoguerra?

È evidente che le relazioni bilaterali tra Parigi e Berlino rappresentino uno dei pilastri su cui non può non fondarsi il progetto europeo. Tuttavia, è anche innegabile che il Trattato di Aquisgrana non rappresenta solo un aggiornamento del Trattato dell’Eliseo firmato nel 1963 dall’allora presidente francese Charles De Gaulle e dal cancelliere tedesco Konrad Adenauer. Francia e Germania non stanno semplicemente facendo da battistrada nel processo di integrazione europea, non si tratta più dell’Europa “a più velocità”, “a cerchi concentrici”, e formule simili… Il salto in avanti, qualitativo e quantitativo, che si compie nell’integrazione tra i due Paesi (politica estera e di difesa, sicurezza, un’area economica e legislativa comune) è tale da imprimere non solo e non tanto un cambio di passo al progetto europeo, ma un mutamento della sua stessa natura. Gli altri Paesi non hanno che due strade di fronte: accodarsi, ma da province del neonato Impero carolingio, o mettersi di traverso, cercando contrappesi all’interno, o anche in attori esterni all’Unione. In un caso o nell’altro, l’Ue come l’abbiamo conosciuta fino a oggi, o meglio come abbiamo creduto di conoscerla, non esiste più.

Il cosiddetto motore franco-tedesco ne esce trasformato. Qualcosa di profondamente diverso da una forza motrice dell’integrazione europea qual era tutto sommato con il Trattato dell’Eliseo. Franco-tedeschi diventano anche ruote e assi, carrozzeria e fanali, ma soprattutto volante e conducente. I passeggeri? Sono i benvenuti, a patto che non disturbino troppo e contribuiscano alle spese per carburante e pedaggi. Difficile anche chiedere di scendere, una volta saliti a bordo.

Ma vediamo nel merito il trattato. A far sobbalzare non è tanto l’affermazione che Francia e Germania terranno prima dei grandi vertici europei “consultazioni regolari a tutti i livelli” cercando di consolidare le “comuni posizioni”. È questa una manifestazione del tradizionale asse o motore franco-tedesco. C’è molto di più e, nonostante l’abbandonte uso di retorica europeista e multilateralista, in netta contraddizione con l’idea propagandata di “Unione europea” e con la sua faticosa realizzazione.

Il trattato si colloca “all’interno dell’Europa”, ha assicurato la cancelliera Merkel. “I due Paesi approfondiscono la loro collaborazione nel contesto della politica europea”, è scritto nel testo. Ma come si conciliano queste affermazioni con la disposizione secondo cui l’ingresso della Germania come membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è ora “una priorità della diplomazia franco-tedesca”? “Nel contesto della politica europea”, per rafforzare il peso internazionale dell’Unione, la priorità non dovrebbe essere piuttosto un seggio Ue che sostituisca quello francese, o almeno che si aggiunga ad esso. No, l’obiettivo dichiarato è l’ingresso della Germania sostenuto da Parigi. E perché non gli altri grandi sconfitti della Seconda Guerra Mondiale, Italia e Giappone? O l’India? Chi è che intende riformare (sovvertire sarebbe troppo) il sistema internazionale post-bellico?

Germania e Francia intendono rafforzare l’integrazione delle rispettive economie fino alla creazione di “uno spazio economico franco-tedesco con regole comuni”. E il mercato unico? Come e quanto questo nuovo spazio condizionerà regole e dinamiche del mercato unico europeo, senza che gli altri stati membri abbiano voce in capitolo? La capacità dell’Eurozona di condizionare il mercato unico, soprattutto nell’ambito dei servizi finanziari, è una delle principali fonti di insofferenza dei britannici nei confronti della loro appartenenza all’Ue. Sono i Paesi dell’Eurozona e la Bce che plasmano il sistema bancario e il mercato dei servizi, mentre a Londra non resta (restava) che una debole influenza su quei processi decisionali – uno dei temi su cui l’ex premier Cameron era tornato a mani vuote da Bruxelles.

Ma c’è di peggio. Francia e Germania ad Aquisgrana hanno di fatto firmato un’alleanza militare difensiva, impegnandosi a “prestare aiuto e assistenza reciproca con tutti i mezzi a loro disposizione, comprese le forze armate, in caso di aggressione contro il loro territorio” e prevedendo, a questo scopo, anche la costituzione di un “Consiglio di difesa e sicurezza franco-tedesco come organo politico adibito a gestire questi reciproci impegni”. Conseguente l’obiettivo di “rafforzare ulteriormente la cooperazione tra le loro forze armate” e “di procedere a schieramenti congiunti”.

La cancelliera Merkel ha parlato di “un comitato militare comune, un ministero della difesa comune, una politica per la sicurezza e sulle esportazioni militari condivisa”. Secondo la cancelliera, sarebbe “soltanto dal coordinamento” nella politica estera e di difesa tra Berlino e Parigi che potrà fondarsi “il nuovo esercito europeo”. Ora, essendo quello militare uno strumento al servizio della politica estera, quali interessi di politica estera potrà mai servire un esercito europeo così concepito, se non quelli dei Paesi che lo hanno già fondato e lo guidano? E quanto vicini arriveranno i tedeschi alla grande “innominabile” di tutti i dibattiti sull’esercito “europeo” – l’atomica?

E la Nato? Non è forse questa solidarietà difensiva già prevista nel quadro dell’Alleanza atlantica? Un esercito europeo a guida franco-tedesca sarebbe nella migliore delle ipotesi un doppione, nella peggiore un progetto concorrente e non complementare della Nato.

Francia e Germania quindi non si limitano, per usare le parole della Merkel, a “imprimere il ritmo” all’Europa. Nel “riorientare” la loro cooperazione, nel “concordare il ruolo internazionale” e nell’impegnarsi in “azioni comuni”, rischiano di sottoporre a ulteriori stress e forze centrifughe un edificio già pericolante, invece di “contribuire al successo dell’Ue” come proclamano.

Vista attraverso le righe del Trattato di Aquisgrana l’Ue appare una finzione, il paravento delle ambizioni franco-tedesche, e allo stesso tempo lo strumento per servirle. Se da una parte si allontana, anzi scompare dietro l’orizzonte l’utopia costruttivista degli Stati Uniti d’Europa, dall’altra si accentua il carattere “imperiale” di una Unione europea dove al di fuori di Francia e Germania (con Belgio e Lussemburgo) tutto il resto è provincia, più o meno lontana.

Brexit e Aquisgrana sono due eventi che sommati cambieranno per sempre il volto dell’Unione europea e dell’Occidente: un Atlantico più largo, divisioni geopolitiche e culturali più marcate tra Anglosfera ed Europa centrale. Evidentemente intrecciati, sarebbe riduttivo concludere che l’uno sia causa dell’altro o viceversa. Non si tratta di un fulmine a ciel sereno, ma di un processo avviato almeno dalla fine della Guerra Fredda. Forse accelerato dalla Brexit e dalla presidenza Trump, ma certamente non determinato da tali eventi, non più di quanto essi non siano la reazione al prendere forma di un’Europa franco-tedesca, o meglio germano-francese. Già oggi dal punto di vista economico e istituzionale l’Unione europea appare come il frutto di una “spartizione” tra tedeschi e francesi. Ai primi la governance, le regole economiche, ai secondi i ministeri, la burocrazia e, fuori gli inglesi, un ruolo guida nella difesa. L’Ue somiglia sempre più allo Stato francese replicato in scala: centralista e dirigista, napoleonico. Forse, un misterioso intuito collettivo ha guidato gli elettori britannici nella loro decisione di uscire dall’Ue proprio ora: come si poteva immaginare che il Regno Unito potesse accettare di venire ridotto a mera provincia periferica di una Ue sempre più caratterizzata dal centralismo franco-tedesco?

Molti lamentano rispetto alle firme di Aquisgrana l’isolamento dell’Italia, di cui si attribuisce la responsabilità al governo gialloverde, colpevole di guardare altrove invece che a Berlino e Parigi. Ma nonostante un ventennio di inchini di molti dei precedenti governi nelle due capitali, a quel tavolo noi non siamo mai stati in grado di sederci, non alla pari, e ammesso che fossimo mai stati invitati, è almeno dal 2011 che ne siamo esclusi. E negli ultimi anni, non mesi, Parigi e Berlino hanno fatto di tutto per farcelo capire. Piuttosto, ci sarebbe da chiedersi se non avessimo impiegato meglio le nostre risorse lavorando a rafforzare i nostri possibili contrappesi, sia interni (Uk, Paesi dell’est) che extra-Ue (Usa, Russia, Giappone). Berlusconi, a tratti, ci ha provato. Non sembra che Lega e M5S abbiano sufficienti consapevolezza e profondità strategica, impegnati come sono in schermaglie di corto respiro.

Bisogna anche fare i conti con la realtà. In effetti, il livello di integrazione – economica, finanziaria, sociale, culturale – tra Francia e Germania (con Belgio e Lussemburgo) non si riscontra tra altri stati membri. È, in un certo senso, l’unico caso in cui l’Europa sembra cosa fatta, un fatto compiuto a cui manca solo il suggello dell’unione politica. È innegabile infatti che lungo quel confine, da settant’anni non più bagnato dal sangue, si respira un vero sentimento europeo, alimentato da legami storici, dal passaggio di merci, aziende e persone, da una vera integrazione economica, finanziaria, di interessi, come probabilmente lungo nessun altro confine tra stati europei. Sotto questi punti di vista, il centro-nord Italia avrebbe potuto far parte di tale processo di integrazione (come fece già parte del Sacro Romano Impero), ma è anch’esso uscito da questa partita con l’unità d’Italia.

Va detto però che il Vecchio Continente e il Mediterraneo non sono così centrali come mille o cinquecento anni fa. Un’Europa neocarolingia che coltivasse una sorta di equidistanza tra Washington da una parte e Pechino e Mosca dall’altra, che si illudesse di poter “fare da sola”, sganciandosi dal legame transatlantico, finirebbe per rivelarsi velleitaria. Un pericolo serio, se invece dovesse rappresentare un completamento dell’“Heartland” euroasiatico facendosi attrarre nell’orbita di Cina e Russia. Di sicuro è tornata la questione tedesca, a cui abbiamo dedicato un capitolo in “Brexit. La Sfida” (2017). La prospettiva concreta di una Germania egemone in Europa preoccupa gli anglo-americani, così come il fantasma di un nuovo patto Ribbentrop-Molotov, l’assenza di un confine naturale tra Mosca e Berlino, tormenta le capitali dei Paesi dell’est.

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