Economia

L’Ue rottama l’industria dell’auto: ecco il baratro verso cui stiamo correndo

Nel 2035 stop ai motori a benzina e diesel: regalo alla Cina e addio al trasporto privato di massa. È ora che sulle follie green il governo Meloni batta un colpo

Economia

Accecata dalla religione green, l’Europa sta viaggiando a grandi passi verso la desertificazione industriale e la dipendenza dalla Cina. E non ci pare, purtroppo, che il governo Meloni abbia intenzione di opporvisi con la necessaria determinazione.

Ne abbiamo scritto più volte su Atlantico Quotidiano. Stiamo commettendo, con gli obiettivi di decarbonizzazione a breve termine, completamente svincolati da ogni esame di fattibilità dal punto di vista delle materie prime e delle catene di approvvigionamento, lo stesso errore commesso con i gasdotti Nord Stream, l’hub imperiale russo-tedesco che ci ha resi dipendenti dal gas russo.

Verso emissioni zero

Un altro grande passo è stato mosso ieri con il via libera definitivo del Parlamento europeo (340 voti favorevoli, 279 contrari e 21 astenuti) alla messa al bando dei veicoli a benzina e diesel di nuova immatricolazione a partire dal 2035, sulla base dell’intesa dell’ottobre scorso tra Parlamento e Consiglio.

Dunque, entro il 2035 elettrificazione dei nuovi veicoli per centrare l’obiettivo emissioni zero. Entro il 2030 gli obiettivi intermedi: riduzione delle emissioni del 55 per cento per le automobili e del 50 per i furgoni. Deroga fino alla fine del 2035 per i costruttori con piccoli volumi di produzione annui (da 1.000 a 10.000 nuove autovetture, o da 1.000 a 22.000 nuovi furgoni) – l’emendamento “salva-Ferrari” – ed esenzione anche oltre quella data per volumi di immatricolazione annui inferiori alle mille unità.

Ma vietando i motori a combustione, l’Ue non si accontenta di indicare un obiettivo di riduzione delle emissioni, impone anche la tecnologia con la quale conseguirlo, contravvenendo al principio di neutralità tecnologica e scoraggiando ricerca e sviluppo.

Dopo il voto finale in plenaria a Strasburgo, il testo dovrà essere approvato anche dal Consiglio europeo prima di essere pubblicato nella Gazzetta ufficiale dell’Ue – un passaggio che purtroppo pare essere una pura formalità.

Il voto a Strasburgo

La parziale buona notizia è che gli eurodeputati dei partiti di centrodestra, Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia, hanno votato compattamente contro. La legislazione non è passata a grande maggioranza, perché l’asse tra Popolari e Socialisti non ha retto. Il Ppe in gran parte ha votato contro, inclusa come detto Forza Italia. A favore i gruppi di sinistra, i Verdi, il Movimento 5 Stelle e quasi tutti i macroniani di Renew Europe.

Ora, questo voto dovrebbe far sperare. Logica vorrebbe che se tutti i gruppi dell’attuale maggioranza a Roma si sono espressi compattamente contro, il governo Meloni sia determinato ad opporsi in ogni modo a questo ennesimo diktat eco-fondamentalista.

Il governo Meloni

Purtroppo, però, le cose sembrano stare diversamente. Se il leader della Lega e ministro delle infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini ha parlato di “decisione folle e sconcertante, contro le industrie e i lavoratori italiani ed europei, a tutto vantaggio delle imprese e degli interessi cinesi”, frutto di “ideologia, ignoranza o malafede”, altri ministri hanno fatto capire quale sia l’orientamento del governo.

Il ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin – già protagonista, lo scorso ottobre, dello scellerato via libera alla direttiva sulle case green in Consiglio dei ministri dell’ambiente – fa capire che non è aria di barricate:

Gli obiettivi ambientali non sono in discussione, benzina e diesel sono inquinanti per le nostre città e incidono negativamente sull’effetto serra. Crediamo però che questa exit strategy debba condurre a medio termine a un comparto riconvertito più forte, con salde prospettive di sviluppo, che tutelino professionalità e posti di lavoro.

Dello stesso tenore le dichiarazioni del ministro del made in Italy e delle imprese Adolfo Urso. Ma se gli obiettivi “non sono in discussione”, se comunque si accetta il principio di una “exit strategy” da benzina e diesel, se le “perplessità” sono solo “sui tempi e i modi”, e se ci si accontenta di “maggiore gradualità” e “biocarburanti” (ancora da ottenere), allora vuol dire che il governo Meloni intende assecondare la narrazione e l’agenda green anziché contrastarle.

Francamente, di fronte alla gravità di questa scelta crediamo siano necessarie ben altre prese di posizione. Se l’invito di Macron a Zelensky si è meritato un “inopportuno”, forse Giorgia Meloni dovrebbe cominciare a considerare di esprimersi apertamente anche contro le follie green che minacciano le fondamenta della nostra economia.

Le prossime elezioni europee del 2024 non sono poi così lontane e su questi temi il centrodestra al governo non può permettersi di mostrarsi rassegnato allo spirito dei tempi. Sono davvero sicuri che i loro elettori vogliano tutto questo?

La Cina ci sta già divorando

Si illudono forse di alleviare l’impatto con i soliti “incentivi”, a conferma del protocollo statalista già enunciato dal presidente Reagan per i settori colpiti dalle regolazioni governative: se non si muove più, sussidialo. Ma stavolta i sussidi, anche se a livello europeo, non basteranno a salvare l’industria dell’auto e l’indotto dalla competizione di quella cinese.

Come ha spiegato pochi giorni fa Gianclaudio Torlizzi ad Atlantico Quotidiano, il comparto tedesco dell’auto ha sottovalutato per anni il problema, “saldando l’abbraccio con la Cina nell’illusione che il suo mercato avrebbe salvato i colossi europei. La cosa ovviamente non sta avvenendo e Pechino sta divorando il nostro mercato, data la sua competitività grazie alla convenienza dei prezzi e all’approvvigionamento delle materie prime necessarie per le auto elettriche”.

Il Green Deal europeo si sta rivelando un “clamoroso boomerang” per la nostra industria dell’auto. Già oggi, quando manca ancora più di un decennio al bando dei motori a combustione, il colosso cinese dell’auto BYD ha aumentato la quota di mercato globale nel comparto delle elettriche dal 6,3 all’11,9 per cento, superando Volkswagen scesa dal 9,5 al 7,5 per cento (dati 2022).

Gli scenari

Su Twitter il Ppe ha parlato di un “effetto Avana”, ovvero dopo il 2035 “le nostre strade potrebbero riempirsi di auto d’epoca perché le nuove auto senza motore a combustione non saranno facilmente disponibili o convenienti”.

Ma il rischio è di uno scenario ancora peggiore. Innanzitutto, una volta che non verranno più prodotte nuove auto a benzina e diesel, nel giro di qualche anno sarà difficile anche reperire pezzi di ricambio, quindi il cosiddetto “effetto Avana” suona persino ottimistico.

Le materie prime

C’è poi il tema delle terre rare necessarie per la produzione delle batterie, la cui estrazione ha un non trascurabile impatto ambientale e sociale, e il cui mercato è in grandissima parte controllato dalla Cina. Ragione per cui le industrie cinesi avranno (anzi, stanno già avendo) un vantaggio competitivo tale da mettere fuori mercato le nostre.

La rete elettrica

E c’è la questione della rete elettrica. Reggerà ad una domanda di massa di ricariche giornaliere? La scorsa estate, in California, sono stati necessari razionamenti per evitare black out.

Nella migliore delle ipotesi saliranno i prezzi di ricarica. Oppure, semplicemente, non sarà possibile. Oggi l’elettricità rappresenta solo il 20 per cento di tutti i consumi energetici e ciò dovrebbe darci l’idea dell’impresa titanica, diciamo pure utopistica, di elettrificare il restante 80 per cento, tra cui appunto i trasporti. Tra l’altro, tutta questa elettricità in più dovrebbe essere generata da fonti rinnovabili e accumulata in batterie.

Insomma, stiamo andando verso un futuro in cui o dipenderemo fortemente dalla Cina per la produzione di energia elettrica e di batterie, oppure semplicemente i prezzi saranno così proibitivi che il trasporto privato non sarà più di massa, alla portata di tutti, ma un lusso per pochi, per una élite sempre più ristretta.

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