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Guerra tra Rwanda e Congo: ecco cosa sta accadendo e perché

Presa la città di Goma dal gruppo armato M23, sostenuto dal Rwanda. Dietro il conflitto la storica rivalità tra Tutsi e Hutu (noto il genocidio del ’94), Congo stato fallito e saccheggiato

Congo Rwanda (Skynews)

Una nuova crisi umanitaria si è aperta in Africa in una regione che non conosce pace almeno da 30 anni: l’est della Repubblica democratica del Congo composta da tre province, Ituri, Nord Kivu e Sud Kivu, dove sono attivi decine di gruppi armati.

Il più temuto, l’M23, che già controllava gran parte del Nord Kivu, tra il 26 e il 27 gennaio si è impadronito addirittura della sua capitale, Goma, una città di oltre un milione di abitanti, forse quasi due se si calcolano le centinaia di migliaia di sfollati arrivati nei mesi scorsi, in fuga dalle città vicine mano a mano che l’M23 avanzava su Goma.

L’M23 è forte grazie al sostegno militare e finanziario che riceve dal vicino Rwanda perché la maggior parte dei suoi combattenti sono di etnia Tutsi, la stessa al potere sebbene minoritaria in Rwanda, e svolgono il compito di proteggere le tribù Tutsi che vivono in Congo dalle Forze democratiche per la liberazione del Rwanda (FDLR), un gruppo armato fondato nel 2000.

Come si arriva al conflitto di oggi

Per meglio capire, bisogna fare un passo indietro. 31 anni fa in Rwanda il governo era in mano agli Hutu che, in uno sfrenato delirio razzista, nel 1994 decisero di sterminare tutti i Tutsi. Fu una strage senza precedenti. In 100 giorni furono uccise circa 940 mila persone, per lo più Tutsi, ma anche migliaia di Hutu: quelli, i pochi, contrari al genocidio.

Quando il leader Tutsi Paul Kagame e i suoi soldati riuscirono a fermare il massacro e a prendere il potere nell’agosto del 1994, circa due milioni di Hutu si riversarono in Congo, accolti in un enorme complesso di campi profughi allestito dall’Onu. Con i civili però arrivarono anche i soldati dell’esercito Hutu e gli Hinterahamwe, la forza paramilitare Hutu che aveva avuto una ruolo determinante nel genocidio. Quello che ne resta e i loro discendenti militano adesso nelle FDLR.

Gli M23 avevano già occupato Goma nel 2012, ma vi erano rimasti solo per qualche giorno. Il Rwanda allora aveva accettato di smettere di sostenerli militarmente. Adesso la situazione è più complessa, se è vero, come sostengono le Nazioni Unite, che oltre ai combattenti M23 in città ci sono da 3 a 4 mila soldati rwandesi. Quello in atto non è uno scontro tra un governo e uno gruppo ribelle. È guerra tra due paesi: uno dei quali, il Rwanda, ben visto, l’altro, il Congo, assai screditato a livello internazionale.

La stabilità del Rwanda

Paul Kagame, un Tutsi, è alla guida del Rwanda dal 1994, quando ha messo fine al genocidio, e lo scorso agosto ha iniziato il suo quarto mandato. Anno dopo anno ha assicurato al paese stabilità sociale ed economica. Ha chiuso il 2024 con un tasso di crescita economica dell’8,3 per cento. Per quest’anno è prevista una crescita almeno del 7 per cento.

Il Fondo monetario internazionale a dicembre ha concesso al paese fondi per quasi 182 milioni di dollari: “l’economia del Rwanda – è stata la motivazione – ha mostrato resilienza, una solida crescita nei settori chiave, una buona ripresa della produzione agricola. L’inflazione inoltre è stabile e riflette efficaci azioni di politica monetaria”.

Kagame non manca di criticare l’Occidente, ma ha stabilito solide alleanze con alcuni Paesi, tra cui la Gran Bretagna per la quale aveva accettato di ospitare i richiedenti asilo che attraversano il Canale della Manica. L’opposizione però sostiene che quello di Kagame è un regime autoritario. Cita tra l’altro a prova del deficit di democrazia, e come darle torto, i suoi risultati elettorali. Ha sempre vinto con più del 90 per cento dei voti e quest’anno addirittura con il 99 per cento.

Congo, uno stato fallito

Anche in Congo il Pil cresce, del 4,9 per cento nel 2024, ma il Paese è un esempio di come la crescita economica non si traduca automaticamente in sviluppo, è l’idealtipo dell’“Africa che rifiuta lo sviluppo” descritta dalla sociologa camerunese Axelle Kabou.

Il Paese viene definito uno “scandalo geologico” per le sue straordinarie e inestimabili risorse minerarie. Lo scandalo vero è la corruzione sistemica, imperante fin dall’epoca (1965-1997) del dittatore Sese Seko Mobuto che pretendeva fosse ovvio per un presidente arricchirsi a spese del Paese.

Lo scandalo è essere uno Stato fallito, che declina la parola “democrazia” solo nel nome, cambiato da Zaire a Repubblica democratica del Congo dal suo successore, Laurent Désiré Kabila, nel 1997. Tutti rubano e lasciano rubare, cittadini e stranieri. Per questo le infrastrutture sono in condizioni tali che spostamenti anche di poche centinaia di chilometri richiedono persino settimane.

Nessuno, salvo le ong e le missioni straniere, si cura della salute della popolazione, le epidemie sono così frequenti da non essere neanche più considerate una emergenza. A tutti – militari governativi, gruppi armati, caschi blu – è consentito di infierire sulla popolazione, soprattutto su donne e bambini, infliggendo loro ogni sorta di abusi.

Truppe allo sbando

Corruzione e malgoverno spiegano la demotivazione e l’indisciplina così diffuse nel suo esercito di ben 100 mila soldati. Si verificano di continuo casi di militari che abbandonano le loro posizioni e peggio ancora. Come succede anche in altri paesi africani, troppa parte dei fondi stanziati per le spese militari spariscono lasciando i soldati male addestrati ed equipaggiati.

Quelli di stanza nel Nord Kivu non hanno nemmeno divise adatte a proteggerli dal freddo che sugli altipiani è intenso. Il giorno prima che gli M23 entrassero a Goma, gli alti vertici militari hanno abbandonato città e truppe e si sono messi al sicuro nella capitale Kinshasa, a oltre 2.600 chilometri di distanza.

Ad aiutare l’esercito governativo ci sono i soldati mandati dal Burundi e dalla Sadc (la Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale), i miliziani del Wazilendo, un gruppo paramilitare, e circa 300 mercenari bianchi, per lo più rumeni, ingaggiati dal governo. Inoltre dal 1999 per il Congo le Nazioni Unite hanno organizzato una delle loro più grandi missioni di peacekeeping (Monuc, fino al 2010, poi rinominata Monusco), composta da oltre 16 mila caschi blu messi a disposizione da oltre 18 Paesi, per lo più africani, e in gran parte distaccati nell’est.

Ma questo considerevole apparato militare non è bastato a fermare poco più di 8 mila M23 e alcune migliaia di soldati rwandesi. Alla frontiera con il Rwanda, in attesa dell’autorizzazione a entrare nel Paese e mettersi al sicuro, oltre a decine di migliaia di civili, ci sono migliaia di soldati congolesi che si sono arresi e tutti i mercenari bianchi che stanno trattando di entrare in Rwanda e da lì tornare a casa.

Il saccheggio del Congo

Il Rwanda rifiuta l’accusa di Stato aggressore. Tanto meno ammette di contrabbandare grandi quantità di minerali preziosi sottratte al Congo: il secondo e, secondo il governo congolese, principale motivo per cui arma l’M23. Ma lo scorso anno il Rwanda ha esportato minerali per oltre due miliardi di dollari, il doppio rispetto a due anni prima, e molti pensano che buona parte di quei minerali siano stati trafugati al Congo.

Per questo fu molto criticato e da più parti l’accordo di cooperazione mineraria tra Unione europea e Rwanda, firmato lo scorso febbraio. Per l’Ue questa partnership serve “a garantire un approvvigionamento sostenibile di materie prime, precondizione essenziale per raggiungere obiettivi di energia verde e pulita” e a “promuovere uno sfruttamento sostenibile delle ricchezze minerarie rwandesi”. Per il Congo vuol dire farsi complici del saccheggio delle sue risorse.

Marcia verso sud

Il presidente Kagame ha dichiarato di essere d’accordo sulla necessità di un cessate il fuoco. Però non ha minimamente accennato a voler ritirare le proprie truppe e gli M23 da Goma. Al contrario, dal 29 gennaio una parte dei combattenti M23 stanno marciando verso sud, in direzione di Bukavu, la capitale della provincia del Sud Kivu.

Da Kinshasa, ambasciate, agenzie Onu e organizzazioni non governative internazionali hanno dato ordine al personale straniero delle rispettive sedi a Bukavu di lasciare la città.