Esteri

La lezione delle rivoluzioni del 1989 e i conti con il passato totalitario

Il vuoto lasciato dal crollo del comunismo gradualmente riempito da miti nazionali nocivi e nostalgie esaltate. Sostenere l’Ucraina oggi significa battersi per la migliore eredità europea

Muro Berlino (ABC)

Sono trascorsi quasi quattro decenni dalla quella serie di eventi drammatici che, nell’Europa centrale e orientale, portarono a compimento ciò che la maggior parte degli studiosi considerava impensabile: il crollo dei regimi comunisti. Il sistema sovietico era spesso considerato “malato”, ma la possibilità che potesse scomparire fu ampiamente respinta dai circoli politici e accademici in nome di un “realismo” molto spesso lontano dalla “realtà”.

L’erosione dell’ideologia

Solo una manciata di dissidenti, come il ceco Václav Havel, il polacco Leszek Kołakowski o il russo Andrej Amalrik, ne predissero la fine. Due fattori portarono a un crollo così rapido: l’erosione ideologica, che aveva generato una fatale “crisi di legittimità” dei regimi comunisti, e l’ascesa di movimenti e idee alternativi, la cosiddetta “società civile”.

Le burocrazie comuniste, che lo storico Stephen Kotkin chiamava “società incivile”, avevano perso fiducia nell’ideologia ufficiale. Non c’era più zelo; l’ortodossia marxista-leninista era diventata una raccolta di slogan stantii. Il fattore Mikhail Gorbachev – che si sostanziava nella rinuncia alla “dottrina Brezhnev” della sovranità limitata  – unito all’enfasi di Papa Giovanni Paolo II sulla sacralità della verità, catalizzarono ulteriormente la rinascita delle forze sociali che miravano a smantellare il socialismo reale.

L’idea di cittadinanza

Le rivoluzioni del 1989 mandarono in frantumi il leninismo in modo irreparabile e aprirono la strada all’auto-emancipazione dei cittadini dei Paesi dell’Europa orientale. Così facendo, avviarono una svolta intellettuale fondamentale: il ripensamento della nozione di cittadinanza, che era stata sistematicamente sovvertita e negata dai regimi comunisti.

Le lotte che segnarono il periodo post-comunista s’incentrarono sui concetti di civiltà, memoria, giustizia e responsabilità. Politica, cultura, relazioni sociali… tutto era, in un modo o nell’altro, collegato alla ridefinizione di cosa significasse essere un “cittadino”. Ralf Dahrendorf trovò per la situazione una brillante formula: “cittadini in cerca di significato”. La sfida cruciale dopo il 1989 fu quella di costruire con successo – o almeno in modo soddisfacente – un consenso morale e politico basato su una “fiducia” condivisa in istituzioni responsabili e in procedure trasparenti.

L’amnesia sul passato

Queste rivoluzioni hanno aperto la strada alla normalità democratica e alla rivitalizzazione di società che portavano la ferita dell’esperienza comunista-totalitaria. La dissoluzione del leninismo ha prodotto un vuoto che è stato gradualmente riempito da tradizioni sia pre-comuniste che post-comuniste: dal nazionalismo (sia civico che etnico) al conservatorismo, dal neoliberismo a rinnovate forme di autoritarismo. Questi quarant’anni si sono caratterizzati per una fluidità di convinzioni e impegni politici. L’ex blocco sovietico è ancora un “esperimento in corso” di politica democratica.

La questione fondamentale affrontata dalla maggior parte delle nazioni dell’Europa centro-orientale è stata quella di padroneggiare il passato totalitario. Gli effetti negativi che accompagnano l’amnesia sociale radicata non devono essere sottovalutati. La mancanza di veri dibattiti pubblici e di analisi sobrie del proprio passato – incluso il riconoscimento da parte delle massime autorità statali dei crimini contro l’umanità perpetrati dalle dittature comuniste – alimenta miti nazionali nocivi e nostalgie esaltate.

Il caso Putin e il caso ucraino

Un esempio calzante è il regime di Vladimir Putin in Russia. Uno degli elementi essenziali che regge la sua “democrazia gestita” è proprio l’amnesia istituzionalizzata e la sfacciata falsificazione della storia del XX secolo.

L’Ucraina, al contrario, ha rappresentato un caso positivo di transizione dal totalitarismo alla democrazia, nonostante l’ingombrante vicino russo, che ha sempre cercato, spesso in modo criminoso, di allontanare Kyiv dall’Occidente. La richiesta di integrazione europea – espressa con la “Rivoluzione arancione” e con la “Rivoluzione della dignità” – era ed è tuttora correlata direttamente con l’immaginario politico del 1989. Gli ucraini, infatti, rifiutano di essere riannessi dall’impero russo.

L’Europa, tanto nella sua forma “storica” quanto in quella “istituzionale”, non è certo perfetta, eppure continua a incarnare quei valori che hanno ispirato le rivoluzioni del 1989: stato di diritto, tutela delle libertà individuali, accountability.

Gli ucraini – a differenza degli europei occidentali, ipercritici e intossicati dalle notizie sui malfunzionamenti della democrazia – continuano a ritenere positiva l’idea di Europa e la sua costellazione di valori: tolleranza, fiducia nel dibattito delle idee e nel dialogo, un senso, al tempo stesso cristiano e illuministico, di solidarietà tra gli uomini.

Il tutto tenuto insieme da una “ragione pubblica” non assoluta, consapevole dei propri limiti, che non pretende più di “divinare” il senso della storia. Milan Kundera raccontò che, nel 1956, al momento dell’invasione russa dell’Ungheria, il direttore di un’agenzia di stampa lanciò via telex un messaggio disperato: “moriremo per l’Ungheria e per l’Europa”. Allora a difendere la nobile idea di Europa vi erano gli ungheresi. Vennero abbandonati dalle democrazie occidentali. Oggi a lottare e a morire sono gli ucraini. Sostenere l’Ucraina significa battersi per la migliore eredità europea.

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