Esteri

La regia iraniana: così la Rivoluzione islamica sta esportando la sua Guerra Santa

Una guerra che finirà solo dove è iniziata: a Teheran. La rivoluzione khomeinista rappresentò per l’integralismo islamico ciò che il golpe bolscevico fu per il comunismo

Khamenei
  • La piovra iraniana e i suoi tentacoli del terrore: il maggior successo di Teheran è la creazione di territori franchi da cui attaccare Israele senza essere chiamata in causa direttamente
  • Vecchi schemi come la “questione palestinese” del tutto inadeguati: non è una contesa territoriale, è un conflitto esistenziale e Israele è solo il primo nemico

Se osserviamo una mappa del Medio Oriente ci troviamo apparentemente di fronte a un insieme di Stati che non differisce da qualsiasi cartina geografica tradizionale. Vediamo Israele, con i suoi 22 mila chilometri quadrati di estensione e i suoi 9 milioni di abitanti, circondato da 7 milioni di chilometri quadrati di territorio arabo e quasi 400 milioni di persone. Questa la versione ufficiale.

Le legioni islamiste

Poi c’è quella ufficiosa, che descrive però la situazione reale, al di là della finzione geopolitica: attorno allo Stato di Israele, da sud-ovest a nord-est, si sviluppa l’attività di diversi gruppi armati, molti dei quali sono anche entità politiche che controllano ampie porzioni di territorio, vere e proprie enclaves all’interno delle nazioni che le ospitano. Regioni verdi dell’Islam radicale, Stati negli Stati, succursali del terrorismo, i cui obiettivi principali sono la destabilizzazione dell’area, l’attacco sistematico all’unica democrazia liberale del Medio Oriente e l’imposizione della legge islamica (Shari’a).

Sono i famosi (o famigerati, a seconda dei punti di vista) proxies dell’Iran. Localizzati principalmente in sei Paesi (territori palestinesi, Libano, Siria, Iraq, Bahrein e Yemen), con appendici anche nella penisola egiziana del Sinai, hanno nomi esotici, alcuni noti all’opinione pubblica occidentale, altri meno: Hamas e Jihad Islamica a Gaza e in Cisgiordania, Hezbollah (il Partito di Dio) in Libano, le Brigate Zaynabiyoun in Siria, Kataib Hezbollah e Asaib Ahl al Haq in Iraq, Saraya al Ashtar in Bahrein, Ansar Allah (o Houthi) in Yemen, per citare solo i principali.

Si calcola che al momento attuale siano una quindicina le organizzazioni terroriste (secondo la classificazione del Dipartimento di Stato americano) alle dipendenze dell’Iran, la maggior parte delle quali di confessione sciita, con l’importante eccezione di Hamas e Jihad Islamica, sunnite. Coalizzate, per l’occasione, in nome della lotta contro il comune nemico: Israele e, per estensione, l’Occidente liberale.

La rivoluzione khomeinista

Fin dal 1979, anno primo della rivoluzione islamica khomeinista, Teheran fornisce a questi gruppi – attraverso il corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche (IRGC) e il loro braccio paramilitare per le operazioni all’estero, la forza d’élite Qods – armi, addestramento e finanziamenti finalizzati all’esportazione della guerra santa (Jihad) e alla distruzione di Israele. Ma, soprattutto, fornisce loro un’ideologia.

La rivoluzione iraniana, vero momento di svolta nella storia del Medio Oriente, rappresentò per l’integralismo islamico quello che il golpe bolscevico fu per il comunismo. Per la prima volta una dottrina settaria si faceva Stato, occupava le istituzioni, impadronendosene e trasformandole. Con il leninismo, il fondamentalismo degli ayatollah condivideva altri aspetti essenziali: la mobilitazione delle masse, l’uso del terrorismo come tecnica di lotta politica, l’attacco frontale alla società rurale e la spinta verso l’urbanizzazione. Fu proprio sui contadini strappati alle campagne che cominciò quell’opera di indottrinamento ideologico che, a Teheran, si trasformò in vera e propria idea nazionale.

La predicazione khomeinista era partita, molti anni prima della presa del potere, dalle proteste contro la riforma agraria dello shah, il cui obiettivo non era economico ma strettamente politico: condurre le masse dal campo alle periferie cittadine e da qui rovesciare il regime. Una volta raggiunta la capitale, il khomeinismo delle moschee si saldò con i delusi del governo di Reza Pahlavi: furono gli intellettuali (come per il leninismo delle origini) a fornire la giustificazione teorica della rivoluzione, espandendone la portata ai ceti medi.

Il trionfo della rivoluzione elevò l’integralismo islamico a ideologia di Stato, in un’identificazione che – ancora una volta – ricordava quella del Partito rivoluzionario con lo Stato comunista. La politica religiosa divenne totalizzante, permeando di sé l’intera società.

Rivoluzione permanente

Nasceva in quel momento, mentre il comunismo entrava nella sua crisi definitiva, un nuovo totalitarismo fondato su una predicazione anti-occidentale di massa, basata sul rifiuto radicale dei principi liberali e democratici. L’onda lunga di quell’esperimento fondamentalista si riverberava sulla politica e la società mediorientali, facendo della fanatizzazione delle masse e dell’uso del terrorismo di regime (all’interno e all’esterno) i propri capisaldi.

Il massacro del 7 Ottobre in Israele, e quelli che negli scorsi decenni l’hanno preceduto, sono il prodotto diretto di questa vicenda storica. L’esportazione dell’integralismo islamico in Medio Oriente, grazie a strutture del terrore come Hamas o Hezbollah, fortemente radicate nei territori di competenza, consente all’Iran quella proiezione internazionale che, di per sé, gli sarebbe preclusa.

Tornando al paragone con il bolscevismo, è come se dal socialismo in un solo Paese si passasse alla fase della rivoluzione permanente, in un movimento uguale e contrario a quello del leninismo-stalinismo. In assenza di un esercito islamico facente funzione dell’Armata Rossa, l’Iran si affida al terrorismo come forma di guerra, mediante i suoi proxies.

Vecchi schemi inadeguati

In questo contesto politico e ideologico, si capisce immediatamente come i vecchi schemi sulla “questione palestinese” come conflitto eminentemente territoriale siano oggi del tutto inadeguati a interpretare uno scontro a tutto campo all’interno del quale Israele è solo il primo nemico da abbattere. Lo scandalo è Israele, perché lo scandalo è l’Occidente, di cui Israele rappresenta la propaggine estrema in uno scenario che l’integralismo islamico considera debba essere ripulito dagli infedeli (che sono gli ebrei ma anche i cristiani, entrambi da convertire o da eliminare).

È questa identificazione che rende la presenza ebraica inaccettabile per i fondamentalisti, così come in passato per il Gran Muftì di Gerusalemme, già alleato di Hitler. Il conflitto non è più (ammesso che lo sia mai stato) tra Israele e Palestina, ma tra dittature islamiste (Hamas a Gaza, l’Iran con i suoi proxies) e democrazie liberali. Non una contesa territoriale ma una minaccia esistenziale.

La casa della guerra

Gli obiettivi del fondamentalismo islamico non sono negoziabili, per definizione. Al Dar al-Islam, la casa dell’Islam, le terre controllate dai musulmani, si contrappone il Dar al-Harb, la casa della guerra, il mondo non musulmano da convertire (cioè tutti noi). Da convertire con la guerra santa, appunto, un concetto che non ha limite, dal punto di vista territoriale ma anche da quello temporale.

Il Jihad, infatti, è potenzialmente infinito, fino alla conversione dell’ultimo infedele, fino a che la Ummah, la nazione dell’Islam, non si imponga sull’intero pianeta. In questa visione totalitaria ed escatologica non c’è spazio per l’accomodamento o la trattativa con il nemico (il non musulmano), al massimo si possono ammettere tregue temporanee, da utilizzare per recuperare le forze e rilanciare la battaglia.

L’arma del terrorismo

L’uso del terrorismo come strategia militare è allo stesso tempo scelta tattica e conseguenza naturale dell’ideologia integralista. L’islamismo radicale non lotta secondo le nostre regole di ingaggio, non ha bisogno di eserciti per conquistare terreno: gli basta portare la guerra in casa del nemico (letteralmente) per generare terrore nelle società colpite. È la rappresentazione grafica di quel che è successo il 7 Ottobre in Israele, l’11 settembre 2001 negli Stati Uniti ma anche, su scala ridotta ma seguendo lo stesso manuale di istruzioni, nei vari attentati perpetrati negli ultimi due decenni in territorio europeo (Madrid, Parigi, Bruxelles, Nizza, Barcellona e via dicendo).

Ma c’è anche un altro elemento piscologico di cui il jihad terrorista si serve per raggiungere il suo obiettivo espansivo: la rottura del contratto sociale tra cittadini e istituzioni su cui si reggono gli Stati di diritto. Se le democrazie si dimostrano incapaci di proteggere la propria popolazione dagli attacchi, è probabile che gradualmente la fiducia nel sistema venga meno. È un meccanismo già sperimentato dall’estremismo politico e dalle organizzazioni terroriste interne agli Stati, che moltiplica i suoi effetti nel caso della macchina di morte dell’estremismo islamico.

Non si tratta di semplici deduzioni, è tutto scritto nei loro manuali, registrato nei loro filmati di propaganda, basta saper leggere, basta aver voglia di ascoltare.

A differenza dei gruppi eversivi che operavano negli anni ‘70 e ‘80 all’interno di alcuni Stati democratici (Brigate Rosse, RAF, IRA, ETA) in contrapposizione frontale al “sistema” e con un supporto popolare estremamente limitato, Hezbollah, la Jihad Islamica e soprattutto Hamas sono il “sistema”, almeno nelle zone sotto il loro diretto controllo. È questo il principale successo che la teocrazia iraniana, sfidata all’interno da una società civile sempre meno rassegnata al suo destino, ha conseguito sul piano internazionale nei suoi quasi 45 anni di esistenza: la creazione di territori franchi del terrorismo da usare per attaccare Israele senza essere chiamata in causa direttamente.

Il piano di sterminio

Hamas non è semplicemente un gruppo terrorista, è un proto-Stato, una dittatura fondamentalista che tiranneggia gli stessi palestinesi di Gaza e minaccia quelli in Cisgiordania (già vittime della leadership corrotta e complice di Abu Mazen). Il suo programma politico, come da statuto originario, prevede l’estensione dell’Islam a tutta la Palestina e la cancellazione dello Stato di Israele.

La scomparsa di Israele, in quanto patria politica del popolo ebraico, implica necessariamente la previsione del genocidio, sia come strumento per raggiungere lo scopo sia come fine in se stesso dell’ideologia islamista che lo teorizza. L’esistenza di Israele, e quindi della nazione ebrea che risiede all’interno dei confini dello Stato, è incompatibile con i “principi” costitutivi di Hamas. Dal 1987 abbiamo avuto ripetuti pro-memoria di questo obiettivo fondazionale (con un apice di attentati durante la cosiddetta “seconda Intifada” tra il 2002 e il 2005).

Il 7 Ottobre i terroristi hanno compiuto il salto di qualità definitivo verso la sua realizzazione. Quel giorno nel kibbutz Be’eri, nel festival musicale di Reim, nelle case di Sderot, è stato superato lo stesso concetto di sterminio. Scrive lo storico francese Pierre Rigoulot che la mattanza di Hamas e della Jihad Islamica ha rappresentato “il pieno esercizio del pensiero totalitario”, a partire dalla disumanizzazione – pre e post-mortem – del “nemico ebreo” da eliminare.

Aggiungerei che l’attacco frontale contro i membri di un gruppo umano meritevole in quanto tale della morte e delle torture fisiche e psicologiche più atroci, si è svolto in un rituale di violenza ed esaltazione che ricorda le dispute tribali, dove il rapimento delle donne è inteso come umiliazione del vinto e la macellazione dei bambini come la cancellazione dell’identità stessa delle vittime.

Un vero e proprio sacrificio collettivo che, invece di interrompere il ciclo della violenza, lo perpetua e lo porta al parossismo. Per Hamas e per l’integralismo islamico in generale, il nemico non ha età, non esistono innocenti, ebrei e cristiani devono essere convertiti alla “vera religione” o eliminati. Anche il GIA algerino sgozzava donne e bambini.

Già una guerra regionale

Insieme ad Hezbollah, Hamas è – fin dalla sua nascita – il principale strumento di morte in mano alla teocrazia iraniana, uno Stato totalitario per cui la distruzione di Israele e l’esportazione della guerra santa contro gli infedeli rappresentano non solo un obiettivo strategico dichiarato ma le missioni principali della sua stessa esistenza.

La divisione religiosa tra sciiti e sunniti è passata in secondo piano, seppellita dalla montagna di finanziamenti, supporto logistico e militare, che nel corso degli anni hanno alimentato le casse di Hamas.

L’attacco del 7 Ottobre a Israele si inserisce in una strategia di lungo corso di destabilizzazione del Medio Oriente, manifestatasi nella sua forma più clamorosa e tragica in corrispondenza di un possibile accordo di normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita e Israele e in piena fase di consolidamento degli Accordi di Abramo.

Il conflitto esistenziale di fronte al quale si trova Israele, che rischia di lacerarne il tessuto politico e sociale, è già una guerra regionale che nessuna democrazia degna di questo nome potrà permettersi di ignorare o di schivare. Una guerra che finirà solo dove è cominciata. A Teheran.

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