Esteri

La vita in Israele sette mesi dopo l’attacco di Hamas del 7 Ottobre

Una testimonianza diretta da Tel Aviv: piovono ancora missili, 170 mila sfollati mai tornati nelle loro case, attività economiche in difficoltà

Israele Iran attacco

Poco dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre avevamo contattato Fiammetta Martegani, nostra amica giornalista che vive a Tel Aviv, per farci aggiornare sulla situazione in Israele. Nei mesi successivi la stampa internazionale si è concentrata sulla situazione a Gaza, raccontando morti e distruzione ma senza mai nulla raccontarci di Israele. Abbiamo dunque ricontattato Fiammetta per un nuovo giro di domande.

Curatrice presso il Museo Eretz Israel, Fiammetta nasce a Milano nel 1981 e dal 2009 si trasferisce a Tel Aviv per un dottorato in antropologia a cui segue un postdottorato. Collaboratrice dal 2019 per l’Avvenire, ha pubblicato nel 2015 il suo primo romanzo “Life on Mars” (Tiqqun) e nel 2017 “The Israeli Defence Forces’ Representation in Israeli Cinema” (Cambridge Scholars Publishing). Il suo ultimo libro è “Tel Aviv – Mondo in tasca”, una guida per i cinque sensi alla scoperta della città bianca (Laurana Editore).

Gli attacchi proseguono

MARCO HUGO BARSOTTI: L’ultima volta che ci eravamo sentiti eravate sotto costante attacco da parte di Hamas. Ora i media parlano solo di Gaza dando l’impressione che da voi tutto sia rose e fiori. Come è la situazione oggi? 

FIAMMETTA MARTEGANI: In realtà, nel sud di Israele gli attacchi non sono mai smessi, così come, in contemporanea, continuano gli attacchi al nord, al confine con il Libano, da parte di Hezbollah. Per questo in Israele ci sono ancora 170.000 sfollati che non sono mai tornati nelle loro case dal 7 ottobre.

MHB: Quanta parte della popolazione attiva è dovuta partire in guerra? In che modo questo sta cambiando (se lo sta facendo) la produttività delle vostre aziende e normali attività lavorative? 

FM: Sono circa 350.000 i soldati riservisti dispiegati tra sud e nord (non solo a Gaza). La maggior parte di loro sono padri di famiglia che lavorano nei diversi settori dei servizi e dell’economia israeliana, ragione per cui, dalla sanità all’high tech, di cui Israele è sempre stata un’eccellenza, sono molti i settori in difficoltà. Anche perché le ripercussioni a livello economico, anche a causa del boicottaggio in diversi settori della produttività israeliana – incluse università e cultura – saranno di lungo periodo.

L’accusa di genocidio

MHB: Nel mondo la risposta di Israele all’attacco terroristico viene considerata spropositata e molti usano la parola genocidio. Da quanto vedi tu, la gente per così dire “normale” in Israele cosa pensa? 

FM: Penso che l’uso di questo termine è stato strumentalizzato per negare la volontà, da parte del terrorismo islamico – non solo di Hamas – di portare a termine il genocidio del popolo ebraico nello Stato di Israele.

E purtroppo questa legittimazione sta avendo pesanti conseguenze anche al di fuori del Medio Oriente, come abbiamo visto nelle ultime settimane con l’occupazione dei campus americani da parte di gruppi sovversivi che istigano violenza non solo nei confronti di studenti ebrei ma anche di chiunque stia cercando di proteggere le università da quelli che ormai stanno diventando solo atti vandalici contro il sistema nel suo complesso, al punto di aver sostituto la bandiera americana con quella di Hamas.

Le manifestazioni contro Netanyahu

MHB: Leggiamo sempre di manifestazioni per la pace anche a Tel Aviv. L’idea, da quanto capisco, è che terminando l’operazione a Gaza si potrebbero liberare gli ostaggi. Quanto sono condivise queste opinioni e quanta parte della popolazione manifesta (se manifesta) ogni settimana? 

FM: Parte di quella cittadinanza che per 39 sabati consecutivi, fino al 7 ottobre, manifestava contro il governo – per via della riforma della giustizia – ormai da qualche mese, ogni sabato, è tornata a manifestare contro lo stesso governo, da cui si sente tradita.

L’accusa? La totale impreparazione strategica militare emersa il 7 ottobre. I numeri, tuttavia, non sono più quelli di prima del Sabato Nero, poiché, anche tra chi condanna – oggi come allora – lo scellerato malgoverno di Benjamin Netanyahu, c’è tuttavia un forte dilemma riguardo al come proseguire o concludere il conflitto a Gaza dove Hamas sta dal 7 ottobre esercitando lo stesso tipo di violenza nei confronti di Israele, senza lasciare alcuno spiraglio per il ritorno degli ostaggi. 

MHB: Per come la vedi tu, il governo attuale è veramente di coalizione e dunque le scelte militari sono di tutta la nazione, o è ancora un “governo Netanyahu?”

FM: Purtroppo non si è mai trattato di un governo di coalizione ma solo di un’apertura (ad una parte minima dell’opposizione) al Gabinetto di Guerra. Ragione per cui, di fatto, rimane, come dal principio, un governo “Netanyahu-BenGvir”.

Conflitto globale

MHB: C’è qualcosa che ritieni sia importante il mondo sappia relativamente a questi ultimi mesi e che magari i media non raccontano? 

FM: Penso che troppo spesso questo conflitto – e parlo di storia, non solo di quanto avvenuto dopo il 7 ottobre – sia sempre stato trattato come un conflitto solamente locale quando le sue radici – e le sue conseguenze – sono e saranno sempre più globali

Forse un giorno non troppo lontano i nostri figli studieranno nei libri di scuola il capitolo Terza Guerra Mondiale che è cominciata il 22 febbraio 2022 con l’ingresso delle truppe russe in Ucraina. 

Le imminenti elezioni americane hanno a loro volta un peso non indifferente e non sarebbe da sorprendersi se ci si ritrovasse in un nuovo assetto da Guerra Fredda guidata da leader come Putin e Trump, una guerra destinata ad ampliare i propri confini soprattutto fino a quando l’Unione europea non troverà una propria identità e una politica comune che non può ridursi solo al mercato e all’Euro.

Sono passati quasi 80 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e invece di guardare avanti sembra essere tornati indietro. Questo conflitto, dunque, rappresenta una grande sfida, non solo per il Medio Oriente. Un’opportunità per ricostruire alleanze un tempo inaspettate – prima di tutto con i Paesi del Golfo – e ristabilire un ordine. Altrimenti, potrebbe portare ad un collasso della democrazia dell’Occidente in modo irreversibile.

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