In questi primi mesi di presidenza Trump, la nuova amministrazione – sorprendendo non poco gli osservatori convinti che i proclami di “The Donald” fossero fumo in faccia al corpo elettorale americano – ha imboccato la strada dell’unilateralismo.
Il presidente degli Stati Uniti ha dato una definizione netta a questa visione aumentando i dazi a livelli che riecheggiano lo Smoot-Hawley Act del 1930, snobbando gli alleati e proponendo di occupare territori stranieri. Non che DJT abbia inventato nulla. Egli è più un acceleratore che un architetto di eventi, incanalando frustrazioni a lungo covate nei confronti della leadership globale americana e di forze strutturali più profonde che spingono verso l’interno la strategia statunitense.
Superpotenza “canaglia”
Come ha sostenuto, su Foreign Affairs, Michael Becheley (“The Age of American Unilateralism”, 16 aprile 2025), gli Usa si avviano a diventare una superpotenza “canaglia” (rogue), sempre più incentrata su sé stessa. La vera domanda ora non è se gli Stati Uniti continueranno a seguire la propria strada, ma come e fino a quale scopo.
Comprendere i fattori di questo cambiamento è essenziale per dare forma al futuro. La svolta unilaterale di Washington potrebbe destabilizzare il mondo; ma se reindirizzata potrebbe costituire nuova linfa all’egemonia americana di un ordine “liberale”. Una delle ragioni per cui gli Stati Uniti stanno diventando “canaglia” (rogue) è perché possono permetterselo.
L’influenza Usa
Nonostante decenni di avvertimenti di declino, la potenza americana rimane formidabile. Il mercato dei consumi del Paese rivaleggia con le dimensioni combinate dei mercati di Cina ed Eurozona. Metà del commercio globale e quasi il 90 per cento delle transazioni finanziarie internazionali vengono effettuate in dollari, incanalate attraverso banche collegate agli Stati Uniti, il che conferisce a Washington il potere di imporre sanzioni paralizzanti.
Eppure, gli Stati Uniti hanno una delle economie meno dipendenti dal commercio al mondo: le esportazioni rappresentano solo l’11 per cento del Pil (un terzo del quale va a Canada e Messico) rispetto a una media globale del 30 per cento.
Dal punto di vista militare, gli Stati Uniti sono l’unico Paese in grado di combattere guerre di vasta portata a migliaia di chilometri dalle proprie coste. Circa 70 Paesi, che rappresentano un quinto della popolazione mondiale e un terzo della sua produzione economica, dipendono dalla protezione statunitense attraverso patti di difesa e necessitano dell’intelligence e della logistica statunitensi per spostare le proprie forze oltre i propri confini.
In un mondo così profondamente dipendente dal mercato e dalle forze armate statunitensi, Washington ha un’immensa influenza per rivedere le regole o abbandonarle del tutto. Gli Stati Uniti non hanno solo i mezzi per agire da soli, ma anche, sempre più, le motivazioni. L’ordine liberale guidato dagli americani ha superato il suo scopo originario, trasformandosi in un labirinto di fardelli e vulnerabilità.
Alleati deboli e avversari rafforzati
Non ha fallito, ma ha trionfato su minacce che non esistono più: la devastazione della Seconda Guerra Mondiale e la diffusione del comunismo. Ma il successo ha creato nuovi problemi che il vecchio ordine non poteva risolvere. Molti degli alleati degli Stati Uniti che Washington ha contribuito a proteggere, ad esempio, oggi non sono in grado di sopportare oneri maggiori.
Protetti dalle garanzie di sicurezza statunitensi, i Paesi dell’Europa occidentale – così come Canada e Giappone – hanno tagliato la spesa per la difesa, ampliato lo stato sociale e si sono profondamente intrecciati con i mercati cinesi e l’energia russa. Peggio ancora, facilitando l’integrazione di Russia e Cina nell’ordine liberale, gli Stati Uniti hanno rafforzato i loro avversari più pericolosi.
Con i loro fianchi e le loro linee di rifornimento relativamente sicure, esse hanno iniziato a ridisegnare la mappa dell’Eurasia con la forza. Questa forza però, appare come un colosso dai piedi d’argilla, proprio per le debolezze strutturali interne alle società delle potenze eurasiatiche.
Il cambiamento demografico e la crescente automazione stanno ridisegnando il panorama globale e rafforzando la deriva verso l’unilateralismo americano. La demografia in progress sta indebolendo le grandi potenze in Eurasia e destabilizzando ampie fasce del mondo in via di sviluppo; nel frattempo, le nuove tecnologie stanno riducendo il bisogno degli Stati Uniti di manodopera straniera, energia e grandi basi militari.
Il declino demografico
Il risultato è una crescente asimmetria: crescente disordine e indebolimento degli alleati da un lato, crescente autosufficienza e capacità di attacco a distanza degli Stati Uniti dall’altro. Entro il 2050, la forza lavoro delle principali economie dell’Eurasia perderà circa 200 milioni di adulti di età compresa tra 25 e 49 anni – la fascia che traina la produttività, il reclutamento militare e la crescita economica – con cali dal 25 al 40 per cento in molti Paesi. Entro il 2100, la cifra supererà i 300 milioni, con la sola Cina che dovrebbe perdere il 74 per cento della sua forza lavoro in età lavorativa.
La quota di anziani più che raddoppierà nella maggior parte dei Paesi entro la metà del secolo, spingendo i rapporti di sostegno (il numero di lavoratori per pensionato) a livelli rovinosi; quello della Cina, ad esempio, scenderà da dieci a uno nel 2000 a meno di due a uno entro il 2050. Il declino demografico sta già riducendo di oltre un punto percentuale la crescita annuale delle principali economie eurasiatiche, e il rapporto debito/Pil è balzato in media oltre il 250 per cento.
Mentre altre economie si contraggono e si sforzano, l’economia statunitense diventerà più centrale per la crescita globale e la sua base fiscale e la sua forza militare saranno più solide in termini relativi.
Lo squilibrio militare
Tuttavia, è improbabile che gli Stati Uniti trasformino il “non” svantaggio demografico in una nuova era di egemonia liberale. Al contrario, la crisi demografica sta aumentando i rischi per le difese alleate, alimentando un pericoloso squilibrio: i rivali autocratici si stanno militarizzando, nonostante il calo demografico, mentre gli alleati democratici si stanno riarmando lentamente, limitati dall’invecchiamento dell’elettorato e dai crescenti obblighi di assistenza sociale.
Mentre l’equilibrio militare eurasiatico pende a favore delle autocrazie, i rischi per gli impegni di difesa degli Stati Uniti continuano ad aumentare. Questo schema è già visibile. Russia, Cina e Corea del Nord stanno facendo ciò che le autocrazie in difficoltà hanno fatto a lungo: ricorrere all’esercito per proteggere i loro regimi. Da sempre quando la crescita rallenta e i disordini li minacciano, i dittatori convogliano risorse alle forze armate per reprimere il dissenso, scoraggiare i rivali e garantire la lealtà tra i ranghi.
Nel frattempo, gli alleati democratici faticano a tenere il passo. Giappone, Corea del Sud, Taiwan e i Paesi europei si stanno riarmando lentamente, frenati dalla riduzione delle basi imponibili e dall’invecchiamento dell’elettorato che dà priorità alla spesa sociale rispetto alla difesa. A dispetto di queste crisi vi è un esponenziale aumento demografico dell’Africa che aggiungerà oltre un miliardo di persone entro il 2050.
Di conseguenza, e grazie alle nuove tecnologie belliche, l’esercito statunitense si sta trasformando da una forza orientata a proteggere gli alleati a una focalizzata sulla punizione dei nemici lanciando attacchi dal territorio statunitense, dispiegando zone di distruzione automatizzate con droni e mine vicino ai confini avversari e inviando agili unità di spedizione per colpire obiettivi di alto valore e allontanarsi prima di subire perdite. L’obiettivo non è più la deterrenza attraverso la presenza, ma la distruzione a distanza, come nel recente caso degli Houti.
I rischi dell’approccio di Trump
Trump ha troppo investito in una politica a base giuridica “privatistica” e con azioni di investimenti e disinvestimenti come se gli Stati Uniti fossero un’azienda. Ma l’economia non è l’unica strategia. C’è anche la geopolitica. Trattando gli affari globali come un imbroglio transazionale, gli Stati Uniti rischiano di demolire proprio il sistema che ha mantenuto la pace per generazioni.
Le guerre commerciali non fanno solo aumentare i prezzi. Esse smembrano le alleanze e spingono i rivali allo scontro. La geopolitica, soprattutto se indirizzata verso le potenze euroasiatiche impone, invece, una differente strategia tesa non solo a dividere la Cina e la Russia, ma – seppur separate negli interessi tra di loro – nel contenerle in un blocco consolidato di libero scambio.
Questo progetto inizierebbe in patria. Il Nord America costituisce già la più grande zona di libero scambio del mondo. Canada, Messico e Stati Uniti possiedono collettivamente 500 milioni di persone, vaste riserve energetiche e un ampio spettro di capacità industriali. Approfondendo questo nucleo continentale – con infrastrutture condivise, catene di approvvigionamento sicure e mobilità del lavoro – gli Stati Uniti avrebbero una base fiorente da cui competere a livello globale senza dipendere dagli avversari, consolidando quindi le “democrazie di prima linea”, a contatto con gli autocrati, con le alleanze storiche.
Questa stessa alleanza militare formerebbe anche un blocco economico ed un nuovo sistema “westfaliano”. Speriamo che sulle rive del Potomac lo abbiano capito!