Esteri

Tutti complici? Di sicuro Obama il primo complice degli islamisti

La politica obamiana ispirata dalla colpevolizzazione dell’America ha finito per rafforzare in Medio Oriente le potenze islamiste nemiche di Israele e dell’Occidente

Barack Obama

Tutti colpevoli, nessun colpevole. Si potrebbe liquidare così un significativo passaggio del presidente americano ombra Barack Obama sulla guerra in corso in Medio Oriente durante il suo intervento di sabato al podcast Pod save America, gestito da ex membri della sua amministrazione.

Ma le sue parole meritano una lettura approfondita, perché vi troviamo condensata la visione che ha guidato la politica estera, in particolare mediorientale, delle sue amministrazioni.

Equivalenza Hamas-Israele

Il presidente Obama è forse il sommo teorico della “complessità”: se c’è una qualche chance di fare qualcosa di costruttivo, ha spiegato, richiederà una “ammissione di complessità”, “tenere insieme quelle che possono superficialmente apparire come idee contraddittorie. Che quello che ha fatto Hamas è stato orribile e non c’è alcuna giustificazione per questo. E ciò che è anche vero è che l’occupazione, e ciò che sta accadendo ai palestinesi, è insopportabile“.

Una “complessità” che stabilisce innanzitutto una simmetrica equivalenza tra Hamas e Israele, ricorrendo al solito espediente retorico della sinistra istituzionale (la sinistra fuori dalle istituzioni sta semplicemente con Hamas).

Prima la condanna dell’atto terroristico, che non trova giustificazione. Condanna seguita però da una frase successiva in cui di fatto si giustifica l’aggressore, o quanto meno ci si sforza di comprendere i suoi atti alla luce delle presunte colpe dell’aggredito, delle vittime. Da notare che mentre la prima proposizione di Obama non ha suscitato reazioni nel pubblico, la seconda è stata accolta da un’ovazione.

Complessità strumentale

Non c’è nessuna “occupazione”? Non c’è un solo israeliano a Gaza dal 2005? La “questione palestinese” è ormai sequestrata da Teheran e dai suoi proxies ed è indistinguibile dal puro jihadismo dell’Isis? Fa niente, troppo “complesso” per i teorici della complessità. Non vogliamo infatti negare la complessità delle dinamiche in atto, piuttosto denunciare quella complessità evocata strumentalmente per insinuare un concorso di colpe dell’Occidente, di cui Israele è avamposto sia geografico che morale.

E infatti, come conclude Obama il suo ragionamento? “Se vuoi risolvere il problema, allora devi ammettere che nessuno ha le mani pulite, tutti noi siamo complici in una certa misura”. E così, dalla lotta dei palestinesi per un loro Stato, sebbene l’abbiano rifiutato innumerevoli volte, fino al jihadismo più efferato, e persino alle ambizioni egemoniche di Teheran, tutto trova una giustificazione nelle “colpe” dell’Occidente.

La colpevolizzazione dell’Occidente

Questo continuo far leva sui sensi di colpa dell’America, e dell’Occidente in generale, di cui oggi vediamo i frutti avvelenati nella ideologia woke e nella cancel culture, non solo era ben presente nelle due presidenze Obama, ma era a fondamento stesso della sua politica estera, in particolare mediorientale e africana.

Fin dal suo esordio sulla scena mediorientale da presidente in carica da pochi mesi, con il tanto celebrato discorso del Cairo, Obama ha gettato benzina sul fuoco della colpevolizzazione già in atto dell’America, e dell’Occidente in generale, alimentando i sensi di colpa in casa e il revanscismo del mondo islamico. E questo continua a fare ancora oggi.

Un discorso con il quale in pratica si inginocchiava davanti al mondo musulmano: da un lato, sottolineava i contributi della cultura islamica allo sviluppo dell’umanità, dall’altro riconosceva gli errori dell’Occidente nel trattare con i musulmani, rafforzando le narrazioni vittimiste (“l’America non presuma di sapere cosa è meglio per tutti”), definiva “intollerabile” la condizione dei palestinesi (stesso termine usato sabato scorso), sdoganando l’idea di un apartheid israeliano e delineando una equivalenza tra Israele e i gruppi terroristici, annunciava il ritiro dall’Iraq e già apriva ad un accordo sul programma nucleare iraniano (“nessuna nazione dovrebbe scegliere quali nazioni detengono armi nucleari”).

I jihadisti? Una “piccola minoranza”. E qualche timido passaggio sulle discriminazioni e sulla sottomissione della donna. Anzi, un’apertura al radicalismo islamico: “È importante che i Paesi occidentali non impediscano ai musulmani di praticare la loro religione come desiderano, per esempio imponendo gli abiti che una donna deve o non deve indossare”.

Obama complice

Erano le premesse concettuali di una politica che mirava a porre le condizioni per un progressivo ritiro della presenza e dell’influenza Usa in Medio Oriente – cioè esattamente lo stesso fine ultimo dei nemici e dei falsi amici dell’America (Iran, Turchia, islamisti in generale, Russia). Prima condizione, la stabilità, che le amministrazioni Obama si illudevano di ottenere riequilibrando i rapporti di forza regionali a vantaggio della teocrazia iraniana e a scapito degli alleati storici: Israele e Arabia Saudita.

Quindi sì, Obama è sicuramente complice. La sua politica di appeasement con l’Iran (e il Qatar), ripresa fin dal primo giorno dall’amministrazione Biden, ha avuto un ruolo in quanto accaduto il 7 ottobre. Ha armato gli Stati sponsor del terrorismo, come la Repubblica Islamica, e i suoi proxies, come Hamas e Hezbollah.

In otto anni alla Casa Bianca, più tre di Biden, Obama ha sbloccato decine se non centinaia di miliardi di dollari di asset iraniani che il regime ha usato per finanziare e armare le sue milizie in tutto il Medio Oriente – quello che oggi Teheran chiama “l’Asse della Resistenza”.

Ha lasciato che la sua linea rossa sull’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad fosse oltrepassata senza conseguenze. Ha sottovalutato l’Isis e non è intervenuto in Siria, per compiacere Teheran con cui stava trattando sul nucleare, lasciando che diventasse un protettorato russo-iraniano. Ha mal interpretato le primavere arabe e il ruolo dei Fratelli Musulmani e gettato nel caos la Libia.

Come ha osservato Colin Clarke del Foreign Policy Research Institute, “l’unificazione della rete di proxies sotto il comandante della Forza Quds, Esmail Qaani, è stata un moltiplicatore di forza e ha consolidato la strategia iraniana di unità dei fronti come mezzo più efficace per accerchiare Israele”, potenziando le capacità operative di Hamas.

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