Politica

Cosa unisce Conte, Travaglio e la De Crescenzo? Una piazza, diversi pacifismi

L’operazione del Fatto Quotidiano e l’idea di pace. Cosa resta di tutta quella folla e di quanto è stato detto? Assolutamente nulla. Le manifestazioni radicalizzano consensi, non spostano opinioni

Conte pace (Ytube)

Che cosa unisce Alessandro Barbero, medievista – ormai in congedo – e divulgatore di vaglia e di moda su tutto lo scibile storico, a Tomaso Montanari, rettore di UNISTRASI e fondamentalista del pensiero da buon “cattolico radicale”, influenzato dalle idee e dalla figura di don Milani, a Marco Travaglio, moderno ed italico William Hearst, padre del giornalismo scandalistico americano e ancor più di lui capace di influenzare un partito politico come fosse (e probabilmente lo è) cosa sua, a Rita De Crescenzo, pregiudicata tiktoker partenopea, dall’incomprensibile idioma, ma capace di mobilitare migliaia di follower, ricordando la gratuità di alcuni eventi?

La risposta è semplice ed inquietante: la manifestazione organizzata dal M5S a Roma contro il riarmo europeo e contro la guerra il 5 aprile. A prima vista si tratta di una colorata e plurale (anche troppo) adunata di popolo, convinta della bontà del messaggio pacifista ( o “panciafichista”) poste dietro le bandiere esposte. A prima vista!

L’operazione del Fatto

Tutta l’operazione odora di scarsa “spontaneità”, ma frutto di una precisa regia, non di Conte, che se mai avesse una idea originale, essa morirebbe di inedia e solitudine, ma della redazione del Fatto Quotidiano. Fedele alla lezione di Hearst – capace, 130 anni fa esatti, di influenzare, con tutti i “trucchi” mediatici allora a disposizione, l’opinione pubblica americana in maniera tanto radicale da divenire, di fatto, l’ago della bilancia che avrebbe deciso l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro la Spagna – ecco Travaglio attingere alle varie e spesso contraddittorie sensibilità presenti in redazione per studiare prima la direzione che doveva prendere il giornale verso i conflitti (e questa posizione doveva essere, in barba al senso comune eterodossa), poi medianti diverse segmenti dei network direttamente o indirettamente controllati, influenzare l’opinione pubblica a tutto vantaggio degli incassi dell’azienda.

Hearst – magistralmente reso parodia da Welles (Citizen Kane – Quarto potere, 1941) – creò la sua dubbia credibilità occupandosi di scandali, satira, storie di corruzione, attacchi e denunce alle grandi compagnie, il tutto accompagnato da fotografie, manifestando i primi sintomi di uno stile giornalistico più attento allo scandalo e alla spettacolarità piuttosto che all’informazione vera e propria.

Nella redazione del New York Journal non si pianificò una guerra ma “la” guerra di Hearst, nei tempi e nei modi che meglio erano utili all’azienda. Negli uffici di via Sant’Erasmo a Roma i muckraker del “Fatto…” non hanno invitato a scendere in piazza per la pace, ma hanno indirizzato la claque della “pace” di Travaglio, a vantaggio delle maggior fortune editoriali della SEIF Spa. Da una parte una guerra, dall’altra una pace: le due eterne facce di Giano; guerra e pace entrambi strumenti – per nulla incompatibili tra di loro – delle istituzioni e della politica, entrambi fenomeni “totalizzanti”, che obnubilano la ragione, che creano “vertigine”.

Le definizioni di “pace”

La manifestazione di Roma, dove Giuseppe Conte – come opposizione al governo – gridava per tre volte: “No al riarmo”, mentre da presidente del Consiglio elogiava il ruolo dell’Alleanza Atlantica, richiede uno sforzo di analisi su due concetti: la “pace” e le sue derive ideologiche i “pacifismi”. La “Pace”, nella sua accezione più diffusa, viene identificata come un’“assenza di conflitto”.

Si tratta di una definizione “debole”, che ammette l’esistenza del fenomeno solo se relazionato ad un altro. Sia a livello psicologico, sia a livello politico questa è la de­finizione più frequente. Le difficoltà che si affrontano nella definizione del termine è che – nell’approccio filosofico occidentale – si devono affrontare le due differenti chiave interpretative che discendono dalle lingue greca e latina: Eἰρήνη e Pax.

Nel mondo greco la “pace”, l’Eἰρήνη non poteva non essere il traguardo di un faticoso percorso che si concludeva con una raggiunta “armonia” o “equilibrio”. L’armonia era la “pace”. Per i romani, usi ad avere un approccio concreto ai problemi, la Pax era una condizione giuridica; che essa mettesse in armonia le parti o fosse imposta al vinto, era secondario.

La pax romana era il frutto della vittoria o – come nel caso dei cartaginesi e dei daci – dello sterminio sistematico di popolazioni. Pace, quindi, come conquista. Clausewitz, in un passo tanto lucido e decisivo quanto poco conosciuto, scrisse: “l’aggressore ama sempre la pace; egli sarebbe ben lieto di fare il suo ingresso nel nostro stato senza incontrare alcuna opposizione”.

D’altronde già Platone (Leggi I, 626°) ebbe a dire che “ciò che la maggior parte degli uomini chiama pace lo è solo di nome” . Eccoci ad un bivio: da un lato Weber, lucido come sempre, nel 1919 definì la pace come “niente altro che un cambio nel carattere del conflitto”; dall’altro, nell’enciclica Gaudium et Spes del 1965, si ricorda che la pace non è la semplice assenza della guerra, ma essa viene definita con tutta esattezza: opera della giustizia, “opus iustitiae, pax”.

I pacifismi

Se quindi pare impossibile identificare il soggetto in modo chiaro ed univoco, in modo scientifico, ecco che – nell’ambito del pensiero e della tensione morale – si assiste allo sviluppo di teorie, spesso metafisiche, alle volte empiri­che, tese ad ideologizzare l’approccio verso la “pace”.

In altri termini per “pacifismo” si intende, per dirla con Pontara (Dizionario di politica) “una dottrina, o anche soltanto un insieme di idee o di atteggia­menti, nonché il movimento corrispondente, contrassegnati da que­sti due connotati: a) condanna della guerra come mezzo idoneo a risolvere le controversie internazionali; b) considerazione della pace permanente (o perpetua) tra gli Stati come fine possibile e desiderabile”.

Il pacifismo di Conte

Ecco che le colorite istanze presenti a Roma attingono, spesso inconsapevolmente, alle varie anime che caratterizzano da sempre la galassia “pacifista”. Ecco che Conte, quando dice che il EUrearm è il primo passo verso una “economia di guerra” e strepita “più lavoro, meno armi” sembra richiamare ad un pacifismo “economico”, che ha avuto padri illustri come Luigi Einaudi.

Senza la profondità di studi dell’economista di Carrù ecco che l’Avvocato del popolo finisce – cacciandola in “caciara” – per non capire le interazioni tra la crescita delle spese militari e la crescita dell’occupazione e del profitto. Se avesse avuto maggior cultura storica avrebbe dovuto sapere che gli Stati Uniti, che nel 1937 attraversavano un gravissimo momento di recessione con pessime prospettive nel futuro, nonostante il New Deal, solo dieci anni dopo si trovarono ad essere l’unica potenza economica esistente al mondo, capace di investire somme ingentissime in tutto il mondo per esportare il surplus produttivo americano (piano Marshall). Abbastanza chiaro che la super produzione di armamenti (e della ricerca conseguente) avesse aiutato fortemente l’economia.

Il pacifismo anti-occidentale

Su questo poi Conte abbraccia il pacifismo di Travaglio e, quindi, di Orsini: il pacifismo, come lo definì Bouthoul (Les guerres, 1951) “piagnucolone”, quando non disfattista, anche se privo di connotati “ideologici”. Su quest’ultima opzione, quello ideologico con inclinazione verso la sinistra radicale, si muovono personalità come il citato Montanari, Michele Santoro, Piergiorgio Odifreddi e Angelo d’Orsi (I chierici della guerra, 2005) per il quale il partito dell’”anti-guerra” è il “partito della verità”.

Per costoro, qualunque conflitto porta lo stigma del solito Occidente. È il caso di ricordare che Il pacifismo, soprattutto quello italiano, trova origine – alla fine degli anni ’40 – con l’esperienza dei “Partigiani della Pace”, promossa dal fronte social-comunista per convertire ideologicamente la resistenza al nazifascismo in opposizione all’atlantismo – la costituzione della Nato nel 1949 venne definita da Togliatti un “atto di guerra” – e sostenere la politica internazionale dell’Urss staliniana, individuata come un “baluardo della pace” e “della libertà e indipendenza dei popoli”.

Suggestioni che ricordano l’ambigua posizione, per non dire il collaborazionismo di Maurice Thorez e del partito comunista francese dalla firma del patto Molotov Ribbentrop (agosto 1939) alla “Operazione Barbarossa” (giugno 1941). Proprio contro questa forma di “pacifismo” si era scagliato, con il suo solito vigore Marco Pannella, per il quale – nonviolento e non pacifista – questa dottrina era la “peste del 900”.

Il compianto abruzzese, al quale poteva far difetto il senso della misura, ma non la coerenza e le letture, ebbe a dire, con non poche ragioni che “se il nazismo e il comunismo sono stati messi al bando, ebbene il pacifismo merita di accompagnarli. Niente altro nella storia del Novecento ha prodotto così tanti morti”.

Il “panciafichismo”

Come è stata citata all’inizio anche Rita De Crescenzo rappresenta uno specifico tipo di pacifismo: il “panciafichismo” (neologismo creato dagli interventisti italiani nella Prima Guerra Mondiale), ovvero un pacifismo “vile” ed opportunistico.

La nostra eroina partenopea partecipava con la chiara speranza che i miliardi del EUrearms si traducessero non per interventi a favore dell’economia italiana, ma in regalie e prebende, come era uso nel primo governo Conte. Con lei tanti altri che non hanno una visione – qualunque essa sia – sul conflitto, ma che ragionano solo su immediate utilità.

Ma come tutte le manifestazioni, anche quella di Roma ha avuto fine. Cosa resta di tutta quella folla e di tutto quanto è stato detto? Assolutamente nulla e non poteva essere diverso. Le manifestazioni radicalizzano consensi, ma non spostano le opinioni.