Politica

Ecco perché sul fine vita le Regioni non possono legiferare

Nemmeno l’invocato carattere di cedevolezza legittima l’intervento regionale. Dalle sentenze della Corte, la materia è penale, su cui la competenza statale è esclusiva

Giani Toscana (Skytg24) Il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani

Come noto, la scorsa settimana la Regione Toscana ha approvato una legge regionale sul c.d. fine vita. Si tratta del primo caso di legge regionale in materia e avviene a seguito di una campagna capillare (“Liberi subito”) dell’Associazione Luca Coscioni che ha presentato la medesima proposta di legge regionale in molte Regioni per dare attuazione alla pronuncia della Corte costituzionale sul c.d. caso Cappato.

Nelle intenzioni dei proponenti, infatti, la legislazione regionale avrebbe carattere cedevole, cioè diverrebbe inefficace nel momento in cui il legislatore statale adottasse una disciplina nazionale.

L’invocato carattere di cedevolezza è, in realtà, necessario per potere invocare un titolo regionale per intervenire in materia, poiché è fuori dubbio che si tratta di materia statale e che sia quindi il legislatore centrale a dovere legiferare in materia.

Si obietta però che in mancanza di questo intervento, le Regioni possano nel frattempo legiferare solo per regolare determinati aspetti afferenti gli aspetti di assistenza sanitaria e comunque con carattere di cedevolezza rispetto alla eventuale futura legislazione statale. Ciò avrebbe il merito di dare attuazione all’orientamento della giurisprudenza costituzionale che consentirebbe il c.d. suicidio assistito.

La sentenza della Corte

In realtà, il quadro generale sembra più complicato. Come noto, la sentenza 242 del 2019 della Corte costituzionale (Rel. Modugno) ha dichiarato l’incostituzionalità parziale dell’articolo 580 del Codice penale (“Istigazione o aiuto al suicidio”).

In particolare, la Corte costituzionale ha stabilito la non punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

I trattamenti di sostegno vitale

Lo scorso anno, la Corte costituzionale è intervenuta nuovamente sul tema, per verificare la legittimità costituzionale del requisito del “trattamento di sostegno vitale”. Con la sentenza n. 135 del 2024, la Corte pur affermando la legittimità del requisito di “trattamento di sostegno vitale” ne ha dato una più ampia interpretazione, affermando che “il paziente ha il diritto fondamentale di rifiutare ogni trattamento sanitario praticato sul proprio corpo, indipendentemente dal suo grado di complessità tecnica e di invasività. Incluse, dunque, quelle procedure che sono normalmente compiute da personale sanitario, e la cui esecuzione richiede certo particolari competenze oggetto di specifica formazione professionale, ma che potrebbero essere apprese da familiari o caregivers che si facciano carico dell’assistenza del paziente”.

Quindi la Corte costituzionale ha confermato che i “trattamenti di sostegno vitale” non devono essere interpretati in modo restrittivo e questo requisito può dirsi soddisfatto anche quando il trattamento non sia in esecuzione perché, legittimamente, rifiutato dalla persona malata.

Ai nostri fini è opportuno ricordare che la sentenza n. 242 del 2019 ha espressamente evocato più volte la necessità dell’intervento del legislatore per dare una disciplina organica alla materia. Tale intervento non si è ancora realizzato e ha comportato un tentativo di referendum abrogativo dell’art. 579 codice penale (“omicidio del consenziente”), dichiarato dalla Corte costituzionale inammissibile (sent. n. 50 del 2022), e, per l’appunto, la proposizione di un disegno di legge regionale di iniziativa popolare in più Regioni, sopperendo, sulla base di una logica di “cedevolezza invertita”, all’inerzia del legislatore.

L’omicidio del consenziente

Per quanto concerne il tentativo referendario, pare opportuno evidenziare che la Corte costituzionale ha ritenuto che l’approvazione del referendum avrebbe reso lecito l’omicidio di chi vi abbia validamente consentito, a prescindere dai motivi per i quali il consenso è prestato, dalle forme in cui è espresso, dalla qualità dell’autore del fatto e dai modi in cui la morte è provocata.

La liceità, insomma, sarebbe andata ben al di là dei casi nei quali la fine della vita è voluta dal consenziente prigioniero del suo corpo a causa di malattia irreversibile, di dolori e di condizioni psicofisiche non più tollerabili.

La Corte ha rilevato che l’incriminazione dell’omicidio del consenziente, al di là della logica “statalista” in cui è stata pensata, risponde, nel mutato quadro costituzionale, allo scopo di proteggere il diritto alla vita, soprattutto – ma non soltanto – delle persone più deboli e vulnerabili di fronte a scelte estreme, collegate a situazioni, magari solo momentanee, di difficoltà e sofferenza, o anche soltanto non sufficientemente meditate.

Quando viene in rilievo il bene “apicale” della vita umana, ha precisato la Corte, “la libertà di autodeterminazione non può mai prevalere incondizionatamente sulle ragioni di tutela del medesimo bene, risultando, al contrario, sempre costituzionalmente necessario un bilanciamento che assicuri una sua tutela minima”.

Una normativa come quella dell’articolo 579 Codice penale può essere pertanto modificata e sostituita dal legislatore, ma non puramente e semplicemente abrogata, senza che ne risulti compromesso il livello minimo di tutela della vita umana richiesto dalla Costituzione.

Nessun diritto all’eutanasia

Le motivazioni della sent. n. 50 del 2022 consentono di mettere in opportuna evidenza che la pronuncia n. 242 del 2019, pur consentendo a determinate condizioni l’accesso al suicidio assistito, non ha in alcun modo riconosciuto un generalizzato diritto all’eutanasia, avendo piuttosto individuato una circoscritta area di non punibilità.

Dunque la Corte ha confermato la necessità costituzionale del presidio penale, introducendo, secondo la prevalente dottrina penalistica, una scriminante procedurale, cioè una causa di giustificazione che differisce strutturalmente dalle classiche cause di giustificazione, poiché, evitando possibili situazioni giuridicamente caotiche, pone al riparo dall’incertezza di accertamenti giudiziari ex post il soggetto che abbia deciso di agire nel rispetto di una disciplina normativa di controlli pubblicistici in ordine alla liceità della condotta.

La competenza legislativa

Al riguardo, come già detto, i promotori della legislazione regionale ritengono si tratti di competenza legislativa concorrente afferente alla tutela alla salute e alla ricerca scientifica ai sensi dell’art. 117, Cost., 3 comma. Se così fosse nulla quaestio sulla possibilità di un intervento cedevolmente invertito, come già accaduto in altri casi.

Ma così non pare essere. Per comprendere le ragioni del predetto dubbio, pare opportuno evidenziare l’espresso collegamento con la legge 22 dicembre 2017, n. 219 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”) e la circoscritta area di non punibilità dell’aiuto al suicidio individuata dalla sent. n. 242 del 2019.

Questo collegamento si trova nella motivazione della sentenza n. 242 del 2019 sia nella parte in cui si evidenzia che in base alla predetta normativa il paziente in tali condizioni può già decidere di lasciarsi morire chiedendo l’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale e la sottoposizione a sedazione profonda continua, che lo pone in stato di incoscienza fino al momento della morte, sia nella parte in cui si rinvia alla procedura medica per l’accertamento dei presupposti per l’accesso al suicidio assistito.

La stessa legge regionale toscana in argomento richiama la legge 22 dicembre 2017, n. 219 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”), subordinando l’accesso al suicidio medicalmente assistito al rifiuto della sedazione profonda continuativa. Vi è quindi non solo una afferenza materiale, trattando comunque di istituti connessi con il fine vita, ma anche un legame logico funzionale, in virtù del vincolo di subordinazione summenzionato.

Tale collegamento sembra possa aiutare a fare chiarezza sulla questione della competenza legislativa, consentendo di fare riferimento ad un precedente della Corte costituzionale. Infatti, si ricorda che prima dell’adozione della legge 22 dicembre 2017, n. 219, era stata tentata la medesima via che si sta percorrendo oggi, cioè quella di interventi legislativi regionali nelle more di quella statale.

Il precedente del Friuli

In particolare, la Regione Friuli Venezia Giulia aveva adottato la legge regionale 13 marzo 2015, n. 4, recante “Istituzione del registro regionale per le libere dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (DAT) e disposizioni per favorire la raccolta delle volontà di donazione degli organi e dei tessuti”.

Tale normativa regionale era stata impugnata dal Governo in sede di giudizio in via principale davanti la Corte costituzionale proprio per l’asserita lesione della potestà legislativa statale afferente alle materie ordinamento civile e ordinamento penale.

È qui sufficiente ricordare che la Corte costituzionale con la pronuncia n. 262 del 2016 ha accolto il ricorso governativo dichiarando l’illegittimità costituzionale della legge regionale friulana, precisando che:

D’altra parte, data la sua incidenza su aspetti essenziali della identità e della integrità della persona, una normativa in tema di disposizioni di volontà relative ai trattamenti sanitari nella fase terminale della vita – al pari di quella che regola la donazione di organi e tessuti – necessita di uniformità di trattamento sul territorio nazionale, per ragioni imperative di eguaglianza, ratio ultima della riserva allo Stato della competenza legislativa esclusiva in materia di “ordinamento civile”, disposta dalla Costituzione. Il legislatore nazionale è, nei fatti, già intervenuto a disciplinare la donazione di tessuti e organi, con legge 1 aprile 1999, n. 91 (Disposizioni in materia di prelievi e di trapianti di organi e di tessuti), mentre, in relazione alle dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario, i dibattiti parlamentari in corso non hanno ancora sortito esiti condivisi e non si sono tradotti in una specifica legislazione nazionale, la cui mancanza, però, non vale a giustificare in alcun modo l’interferenza della legislazione regionale in una materia affidata in via esclusiva alla competenza dello Stato.

Competenza statale

Appare pertanto perlomeno fondato il dubbio che le conclusioni della pronuncia appena menzionata non possano vieppiù applicarsi alla legge regionale toscana in argomento, atteso che l’iter procedurale e temporale previsto incide significativamente sulla circoscritta area di non punibilità, come peraltro riconosciuto dagli stessi promotori nella relazione introduttiva.

Difatti, a prescindere dalla esatta qualificazione dottrinale, siamo comunque in presenza di una causa di giustificazione che esclude la punibilità di una condotta purché sussistano determinate condizioni e si segua un preciso iter procedurale previsto dalla legislazione in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento.

In definitiva, pare più corretto inquadrare la materia oggetto dell’intervento legislativo in quelle relative alle materie ordinamento penale e ordinamento civile, le quali, come noto, sono di competenza esclusiva statale e non sembrano tollerare un intervento cedevole.

È comprensibile, e anche condivisibile, la critica al legislatore statale di non avere ancora accolto il monito della Corte costituzionale, ma la soluzione di individuare percorsi alternativi di dubbia fondatezza giuridica non convincono, perché creano precedenti pericolosi.

Già il nostro sistema delle fonti risulta fortemente sollecitato (e forse talvolta lacerato). Sarebbe opportuno non intensificare le sollecitazioni, anche se con nobili propositi. Infatti, appena avuta notizia dell’approvazione della legge regionale da parte della Toscana, il presidente di Regione Veneto, Luca Zaia, ha annunciato un imminente intervento in materia addirittura con regolamento regionale, per superare il veto politico in consiglio regionale all’approvazione della medesima legge toscana.

Inoltre, come è stato già notato da diversi commentatori, non si può non evidenziare il singolare paradosso di Regioni, da un lato, fortemente ostili ad un più alto grado autonomia in molte materie, tra cui quella sanitaria, e dall’altro lato, apripista sulla legislazione sul fine vita.

La differenziazione territoriale dei diritti civili e della tutela penale appartiene ad un modello di forma di stato autenticamente federale, come quello degli Stati Uniti. Il nostro modello di regionalismo è un’altra cosa, purtroppo.