Gli scorsi 17 e 18 gennaio i leader del PPE (Partito Popolare Europeo) si sono riuniti a Berlino per discutere di competitività dell’industria Ue e della sicurezza interna alla presenza di Ursula von der Leyen, Antonio Tajani e Roberta Metsola.
Dal vertice sono usciti due documenti: un testo programmatico con le priorità del nuovo esecutivo Ue e un altro documento focalizzato sulla semplificazione burocratica per le aziende. Quest’ultimo in particolare sembrerebbe rappresentare un vero e proprio cambio di rotta in seno al PPE in cui alcuni osservatori vi hanno letto l’abbandono del dirigismo climatico e il ritorno – vivaddio, oseremmo dire – ad una politica razionale basata sul mercato.
Ma è davvero così? Mi spiace dover raffreddare i vostri entusiasmi ma, a detta di chi vi scrive, le conclusioni cui sono giunti i vertici del PPE sono, ancora una volta, un pannicello caldo, un piccolo contentino da dare in pasto a chi chiede invano da tempo l’abbandono delle follie “green” che hanno caratterizzato in negativo quasi vent’anni di politica industriale Ue.
Ancora una volta, infatti, i leader del PPE asseriscono che non sarebbero le follie “green” ad essere, come sono, la causa primaria del fallimento delle politiche industriali e della bassa crescita dell’economia Ue, bensì lo sarebbe l’iper-regolamentazione – che pure è un altro problema scottante ma cui non si può certamente imputare la desertificazione industriale in atto – che danneggerebbe soprattutto il tessuto delle piccole e medie imprese.
Iper-regolamentazione
Quali sarebbero quindi, secondo i leader del PPE, le soluzioni per risolvere questa iper-regolamentazione? Tagliare del 25 per cento gli obblighi di reporting (35 per cento per le PMI) e seguire d’ora in poi la regola “one in, two out” – cioè, per ogni nuova norma introdotta dovranno esserne abolite due vecchie.
A parte la velleità e stupidità di una regola siffatta, non v’è chi non veda l’incredibile effetto boomerang che ciò sortirebbe: come e chi dovrebbe stabilire quali regole vadano eliminate? E, se queste sono eliminabili senza colpo ferire, a che cosa sarebbero servite finora?
Energia e clima
Alquanto più interessante invece, pur se comunque del tutto insufficiente, è il cambio di passo che il PPE sembra aver intrapreso in merito ai temi energetici e climatici. In tal proposito, sono tre le proposte che, in quanto suggerite dal PPE che, ricordiamolo, è da sempre in maggioranza nell’Ue ed è il partito di appartenenza di Ursula Von der Leyen, rivestono carattere di particolare dirompenza.
(1) Sospensione per due anni delle direttive “CSRD” (Corporate Sustainability Reporting Directive) sulla rendicontazione, “CBAM” (Carbon Border Adjustment Mechanism) sulla tassonomia e i dazi sul contenuto di CO2 delle merci importate e “CSDDD” (Corporate Sustainability Due Diligence Directive) sulla sostenibilità, applicandoli solo alle imprese con più di 1.000 dipendenti e tagliando del 50 per cento gli obblighi di reportistica.
Tenendo conto che queste tre direttive sono state approvate rispettivamente nel 2022, 2023 e 2024, si capisce subito la loro portata fallimentare se, per ravvivare l’industria Ue, occorre sospenderle… E comunque la mera sospensione, per due anni, cioè niente per una politica industriale, non dà alle aziende sufficiente certezza per programmare i loro investimenti, quindi il suo effetto è nullo.
(2) L’altra proposta che farà molto discutere gli euro-fanatici è lo stop a ulteriori regolamentazioni in merito al taglio delle emissioni di CO2. Ciò in quanto, a detta dei leader del PPE, il sistema “ETS” (Emission Trading System) di trading dei crediti della CO2 starebbe funzionando molto bene e rappresenterebbe la giusta via verso la riduzione delle emissioni senza bisogno di ulteriori regolamentazioni, come ad esempio gli obblighi di ristrutturazione per i proprietari di casa stabiliti nella famigerata “Epbd” (Energy performance of building directive), altrimenti detta “direttiva case green”, approvata appena un anno fa.
Questo rappresenta una vera e propria bordata alla tanto sbandierata direttiva di cui abbiamo parlato qualche tempo fa su questa stessa testata. Ma anche qui: il sistema ETS resterebbe in piedi e pienamente operativo e già questo sta provocando enormi danni.
(3) Ma la parte sicuramente più dirompente della proposta del PPE è l’eliminazione dei vincoli specifici in termini di obiettivi di crescita prefissati di quote crescenti di energia rinnovabile. Questo è un vero e proprio terremoto perché mette in discussione uno dei pilastri fondamentali della politica climatica europea.
Più in particolare, il cosiddetto “Green Deal” varato da Ursula Von der Leyen si fonda su tre obiettivi con scadenze prefissate e valori vincolanti: il taglio delle emissioni di CO2, l’aumento della quota di energia primaria da fonti rinnovabili e l’aumento dell’efficienza energetica.
Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, è stato soprattutto il secondo obiettivo, quello cioè sulle quote crescenti di energia primaria da fonte rinnovabile, ad aver guidato e pesantemente influito sulle scelte di politica industriale Ue.
In altre parole, finora, nei fatti, non tutte le riduzioni delle emissioni di CO2 sono state trattate allo stesso modo: quelle abbattute mediante la produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile hanno avuto con la Von der Leyen maggiore enfasi e valenza politica rispetto a quelle ridotte con altre tecnologie, come ad esempio l’energia nucleare o i sistemi di cattura e sequestro della CO2, o “CCS” (Carbon Capture and Storage).
Cambio di rotta solo apparente
La proposta del PPE verterebbe quindi su un cambio di rotta, tenuto conto che proprio quel raggruppamento politico è stato protagonista della politica climatica Ue senza mai metterne in discussione la sostanza.
Il cambio di rotta è, cioè, il seguente: quanto più si ritiene necessario e urgente ridurre le emissioni di CO2, tanto più si dovrebbero introdurre politiche che evitino di incorrere in extra-costi indesiderati dovuti alla sovrapposizione di diverse leve fiscali.
In altre parole, il PPE prende atto che il perseguimento contemporaneo di obiettivi climatici ed industriali sta portando l’industria europea alla bancarotta; pertanto, oggi sostiene che occorra scegliere quale delle due politiche perseguire tra politica ambientale e politica industriale: se si sceglierà l’ambiente occorrerà trattare in maniera paritetica tutte le tecnologie atte alla riduzione delle emissioni di CO2, dalle tecnologie di sfruttamento delle fonti rinnovabili all’efficienza energetica, dal nucleare alla CCS. In tale ottica, si potrà usare l’eventuale gettito proveniente dalla “carbon tax” e dal trading degli ETS per ridurre altre imposte o sostenere le imprese energivore.
Se invece si sceglierà la politica industriale, cioè se si vorranno premiare specifiche tecnologie care a Bruxelles, diciamo così (ad es.: auto elettrica, fotovoltaico, ecc.), allora bisognerà rinunciare all’efficienza economica delle politiche e pagare pegno in termini di crescita economica futura.
Conseguenze politiche
Considerando che il PPE rappresenta in tutto e per tutto il potere burocratico di Bruxelles e il principale artefice delle follie green, questa presa d’atto suona come un requiem politico per la cosiddetta “maggioranza Ursula” che non potrà non avere ripercussioni anche sulle future politiche Ue in tutti gli altri settori.
Gli osservatori più scafati leggono in questo apparente cambio di rotta la necessità per l’apparato burocratico Ue di rispondere all’ascesa di Donald Trump negli Usa e del suo dirompente cambio di strategia politica su tutti i fronti rispetto alla precedente amministrazione Biden.
La solita solfa
Dove invece la proposta del PPE ricade sempre nei soliti errori madornali commessi finora è nella reiterazione del principio del “chi inquina paga”, cioè “chi emette CO2 paghi l’onere per la sua riduzione”.
A parte l’orrore che suscita veder confuso in maniera così plateale e ignorante il gas promotore della vita sulla Terra per come la conosciamo con un inquinante, la proposta del PPE è, a tal riguardo, insistere nel far pagare le attività che emettono CO2 attraverso gli strumenti esistenti.
Quali la cosiddetta “carbon tax” e il trading dei certificati ETS, cioè quegli stessi strumenti che hanno estromesso le industrie europee dalla competizione globale e che hanno fatto lievitare oltremodo i costi di beni e servizi per i cittadini Ue in nome del perseguimento di obiettivi “climatici” che sono ben lungi dall’essere mai stati nemmeno lontanamente scientificamente dimostrati: in poche parole, la peggiore delle pene autoinflitte.
Pertanto, come sospettavamo nell’incipit, quanto proposto lo scorso 18 gennaio dai leader del PPE alla presenza di Ursula Von der Leyen è solo un pannicello caldo nei confronti degli immani problemi che sono davanti al sistema economico e industriale Ue: non capirlo o far finta di non capirlo continua ad essere un errore madornale che ci porterà inevitabilmente a precipitare nel baratro che abbiamo davanti.
Il senso di inadeguatezza di queste proposte – taglio del 25 per cento della reportistica, sospensione di due anni delle direttive approvate appena poco fa, ecc. – è ancor più evidente se si vanno a comparare queste iniziative con gli annunci e i primi decreti del presidente Usa Donald Trump: eliminazione totale degli obiettivi della cosiddetta “transizione green”, eliminazione di ogni vincolo “ambientale” sull’industria automobilistica Usa e fuoriuscita dall’Accordo di Parigi sul clima.
Davanti a una tale rivoluzione copernicana – o meglio, rivoluzione del buon senso – ogni altro arzigogolo escogitato dai burocrati europei per perpetrare il loro potere si dissolve come neve al sole.
Occasione irripetibile
La crisi e le contraddizioni che sembrano oggi dilaniare dall’interno il partito simbolo dell’establishment Ue potrebbero costituire un’occasione irripetibile per l’Italia a guida Giorgia Meloni per essere l’elemento trainante in Europa per un ripensamento profondo della fuffa climatica e per il ritorno al buon senso anche al di qua dell’oceano, facendo leva sul prestigio internazionale acquisito in due anni di governo e sul credito particolare di cui la nostra premier gode oltreoceano.
Riuscirà Giorgia Meloni a influenzare la politica energetica e industriale Ue riportando le rispettive strategie a livelli decenti di buon senso? Noi ce lo auguriamo vivamente, per la prosperità nostra e di quella dei nostri figli.