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Una bomba ad orologeria sotto il nostro già pericolante stato di diritto, ma è un ticchettìo che viene da molto lontano

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È stata approvata ieri alla Camera la norma del disegno di legge cosiddetto anticorruzione che sospende il decorso della prescrizione dopo le sentenze di primo grado, sia di condanna che di assoluzione. Vero, a valere dal 2020. Quindi, se l’Ircocervo gialloverde esploderà per le sue contraddizioni interne ci sarà tutto il tempo per disinnescare questa vera e propria bomba posta alle fondamenta del nostro stato di diritto. Ma ciò non toglie che siamo seduti, appunto, su una bomba ad orologeria. Abbiamo già cercato di spiegare su Atlantico perché si tratta di una norma aberrante, una linea rossa da non oltrepassare. E il provvedimento in esame è purtroppo pieno di dispositivi diabolici, che nell’intento di combattere la corruzione rischiano in realtà di incoraggiare condotte volte a colpire amministratori e imprenditori onesti.

Intervenendo in aula per rispondere alle critiche delle opposizioni, il ministro della giustizia Bonafede ha in pratica teorizzato un diritto soggettivo dello Stato a esercitare sine die la sua azione punitiva: una risposta dal “sistema-giustizia”, quale che sia, deve arrivare, a prescindere da quanto tempo ci voglia e, quindi, costi quel che costi. Un teorema che però cozza palesemente con i principi del giusto processo, e in particolare con quello della sua ragionevole durata, con il diritto dell’imputato (e delle vittime) ad avere sì una “risposta”, ma in tempi certi – tali da non trascorrere alla sbarra, da innocente fino a sentenza definitiva, gran parte della sua vita da adulto. Ammesso che dieci, quindici o vent’anni siano tempi accettabili per lo Stato, di certo non lo sono per un comune mortale… Un limite temporale all’esercizio dell’azione penale fa indissolubilmente parte delle garanzie a tutela dei cittadini dallo strapotere e dall’arbitrio del potere pubblico che distinguono un sistema di rule of law da un sistema autoritario.

La sospensione della prescrizione lede i diritti del cittadino imputato anche facendo salire enormemente, e indefinitamente, i costi della difesa, ma rischia di compromettere anche l’efficacia della stessa azione penale, dal momento che nemmeno lo Stato può in realtà permettersi di comportarsi come se le risorse a sua disposizione fossero infinite, di inseguire “la verità” come se non ci fosse un domani che lo chiama ad un’analisi costi-benefici. Solo chi ingenuamente crede in una sorta di trascendenza dello Stato può illudersi che possa ingannare il trascorrere del tempo.

Anche la settimana scorsa non si è conclusa nel migliore dei modi per la nostra giustizia. Abbiamo ascoltato un consigliere togato del Csm, l’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, rivendicare tranquillamente in tv di aver usato il carcere, o meglio come dice lui la scarcerazione, per far parlare la gente… e dichiarare che quello di primo grado è “il vero e unico giudizio che conta”, mentre l’appello è spesso un modo per perdere tempo. Insomma, ancora una volta i fondamenti dello stato di diritto calpestati da chi dovrebbe rappresentarli e difenderli. Eppure, a giudicare dal silenzio del presidente Mattarella (sempre puntuale nei suoi richiami a difesa dei principi costituzionali) non dev’esserci nulla di inquietante nelle apparizioni televisive di Davigo – prima da presidente della seconda sezione della Corte di Cassazione e oggi da consigliere togato del Csm (organo che il presidente della Repubblica peraltro presiede…).

E no, stavolta non si può dare la colpa agli elettori rozzi e ignoranti che hanno mandato in Parlamento e al governo un manipolo di incapaci e/o fascisti… Davigo al Csm lo hanno eletto i suoi colleghi magistrati, in teoria i “competenti” e gli “esperti” del settore della giustizia.

Poi arriva il vicepresidente del Csm, appena eletto, David Ermini – avvocato, deputato e responsabile giustizia del Pd, renziano doc, quello che dovrebbe in qualche modo fare da argine ai Bonafede e ai Davigo – e ci dice che il ruolo politico della magistratura è “inevitabile”, non dovrebbe “né stupirci né scandalizzarci”, insomma nulla che possa “generare allarme democratico”. “Si parla spesso, a proposito di questa spinta propulsiva della magistratura verso i diritti, di ‘supplenza giudiziaria’, e vi si ravvisano rischi e criticità”, prosegue nel suo ragionamento.

“L’eccessiva politicizzazione della giustizia sfilaccerebbe in qualche modo la trama del tessuto democratico. Forse mai come in questi tempi, l’ordine giudiziario è investito di grande responsabilità sociale, proprio per il crescente rilievo della giustizia nella vita collettiva, in buona parte specchio della crisi di legittimazione della politica, che ha chiamato i magistrati a far fronte a inedite aspettative ampliando gli spazi di discrezionalità”.

Ma com’è possibile che in Italia, culla del diritto, dove l’istituto della prescrizione risale addirittura al diritto romano, tali concezioni giustizialiste e illiberali trovino posto ai vertici di Via Arenula e di Palazzo dei Marescialli?

Il populismo del Movimento 5 Stelle viene da molto lontano, come qui su Atlantico abbiamo cercato di mostrare all’indomani del voto del 4 marzo scorso. Viene dagli istinti peggiori degli italiani solleticati dalla sinistra per opporsi ai governi Berlusconi. Viene da Mani Pulite e dai suoi metodi discutibili, ma all’epoca indiscussi, su cui in troppi hanno preferito chiudere entrambi gli occhi. E da ancora più lontano, dalla “superiorità morale” berlingueriana, che ancora oggi è la rovina del Pd, e dai miti della sinistra post-sessantottina.

Una cosa giusta, infatti, l’altro giorno alla Camera, il ministro Bonafede l’ha detta, e cioè che le posizioni del Pd sulla prescrizione, solo pochi anni fa, non erano così distanti da quelle messe nero su bianco nel ddl anticorruzione. Il populismo grillino è uscito dal vaso di Pandora scoperchiato dalla sinistra per combattere i suoi avversari. Il giustizialismo; la demonizzazione dell’avversario politico, corrotto e disonesto a prescindere, quasi “antropologicamente”; la delegittimazione dell’autorità a tutti i livelli, dalle istituzioni (quando a rappresentarla ci sono gli altri, naturalmente) alle cattedre, degenerata in una generalizzata perdita di credibilità e autorevolezza di qualsiasi cosa o chiunque venga percepito come “il sistema”; la retorica pauperista, l’invidia sociale e l’atteggiamento anti-impresa; l’ambientalismo che sconfina nel “no” a tutto, che si tratti di infrastrutture o fonti energetiche. Sono tutti ingredienti oggi più o meno presenti nel minestrone post-ideologico del Movimento 5 Stelle. Le stesse mistificazioni con le quali la sinistra nei decenni scorsi ha avvelenato il clima politico e il dibattito pubblico pur di abbattere il nemico di turno. Il piccolo problema è che al contrario dei loro “cattivi maestri”, questi qui ci credono per davvero.

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