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Catalogna: un processo ai politici, non un processo politico

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Il 10 febbraio scorso Atlantico Quotidiano pubblicava un articolo di Federico Rossi sul processo ai leaders indipendentisti catalani, che ha preso il via martedì scorso nella sala penale del Tribunal Supremo di Madrid.

Tra i dodici imputati vi sono nove ex membri del governo catalano durante la presidenza di Carles Puigdemont, la presidentessa del Parlamento all’epoca dei fatti contestati e due attivisti di associazioni catalaniste fortemente implicate nella causa separatista. Puigdemont e alcuni altri ex consellers sono attualmente rifugiati all’estero per sottrarsi alla giustizia spagnola.

Nell’articolo Rossi adotta senza mezzi termini la retorica e il linguaggio dell’indipendentismo militante e parla di “prigionieri politici”, imputati “per il semplice fatto (sic!) di aver dato a milioni di cittadini la possibilità di scegliere tra Spagna e Repubblica Catalana”, di “esilio” per i latitanti, di “processo politico”, di una Unione Europea che, a causa del suo silenzio, avrebbe “perso Barcellona”, per concludere affermando con sicurezza che “un gruppo di persone finirà alla sbarra per un’idea, forse per un sogno”. Insomma, secondo Rossi (nulla di personale, avrei potuto citare altri esempi), un gruppo di candidi idealisti animati dalle migliori intenzioni democratiche sarebbe finito in pasto a un branco di lupi di uno stato semi-autoritario che nega le libertà e i diritti politici a una parte rilevante della sua popolazione.

Un racconto edificante e gratificante senza dubbio, se non fosse che la realtà di questi anni presenta sfaccettature decisamente più complesse che non conviene tacere e che illustrano la strategia con cui il nazionalismo separatista ha preteso di imporre la sua agenda politica – tanto in Catalogna come nel resto del territorio spagnolo – al di fuori dell’ordinamento costituzionale e legale vigente.  Non è possibile ottenere l’indipendenza agendo in base alle norme condivise dello stato di diritto? La proclamiamo lo stesso, sventolando la bandiera dell’autodeterminazione e mettendo in moto un meccanismo alternativo e non riconosciuto per andarcene. Non abbiamo la maggioranza politica e sociale per proclamare la secessione? Esautoriamo il Parlamento autonomico, lo Statuto di autonomia e i diritti delle opposizioni e procediamo come se non esistessero. Questo è lo sfondo ideologico sul quale si è sviluppata l’azione delle classi dirigenti indipendentiste catalane negli ultimi sette anni.

Mi limito ad analizzare alcuni punti che considero essenziali per contestualizzare il giudizio che si apre in questi giorni, a partire dalla definizione di prigioniero politico e di processo politico.
E’ vero che si stanno giudicando esponenti politici ma di per sé questo elemento non è sufficiente a scomodare la definizione di prigioniero politico: nessuno degli imputati è sottoposto a privazione della libertà o a procedimento penale per aver semplicemente difeso pubblicamente le proprie convinzioni o per questioni di coscienza. Ciò che si sta giudicando non sono idee ma azioni – potenzialmente delittuose – compiute nell’esercizio delle proprie funzioni da rappresentanti del governo della Generalitat o dal presidente dell’istituzione parlamentare.

L’indipendentismo è legale in Spagna, i partiti nazionalisti hanno sempre potuto esercitare la loro attività politica in totale libertà, i loro membri rappresentano legittimamente due milioni di persone nei corrispondenti organi rappresentativi e la loro voce è da anni preponderante su tutti i mezzi di comunicazione. Quel che lo stato di diritto non contempla è che si passi dalle parole ai fatti senza rispettare le procedure legalmente stabilite. Si può desiderare l’indipendenza di una regione autonomica, si può fare politica per conseguirla, quel che non è consentito è dichiarare unilateralmente la secessione di una parte del territorio nazionale.

In questa proibizione quello spagnolo è in compagnia di quasi tutti gli ordinamenti costituzionali delle democrazie europee che, in forma diversa, contemplano fattispecie relative ad attentati contro l’integrità territoriale e a protezione dell’unità statuale. Senza andare troppo lontano basta soffermarsi sul titolo del nostro codice penale relativo ai delitti contro la personalità dello Stato e in particolare sull’art. 241 che punisce gli atti diretti a “menomare l’indipendenza o l’unità dello Stato” con un minimo di dodici anni di reclusione.

Analizziamo allora brevemente i fatti che hanno portato agli arresti e al processo. Non si tratta semplicemente del referendum sull’indipendenza dell’ottobre 2017, come vorrebbe far credere la versione separatista ripresa da Rossi nell’articolo. Non si sta giudicando un voto né l’esercizio in sé della sovranità popolare. Quello su cui il Tribunal Supremo dovrà pronunciarsi è la rilevanza penale di una serie di atti compiuti dai massimi esponenti del legislativo e dell’esecutivo catalani culminati con la dichiarazione unilaterale di indipendenza (DUI) del 27 ottobre 2017. Sono tre i passaggi fondamentali:
1) l’approvazione delle cosiddette leggi di rottura con lo Stato avvenuta il 6 e il 7 settembre 2017 nel Parlamento di Barcellona, la legge del Referendum e la legge di Transitorietà Giuridica. La prima stabiliva che sarebbe stato sufficiente un solo voto in più a favore dell’indipendenza per proclamare la secessione; la seconda doveva essere, nelle intenzioni della maggioranza nazionalista, la normativa provvisoria da applicarsi dopo la celebrazione del referendum fino all’approvazione della nuova costituzione della repubblica catalana.
Lola García, co-direttore de La Vanguardia, definisce così quegli avvenimenti nel suo libro El naufragio: “Il 6 e 7 di settembre passeranno alla storia della Catalogna come giornate ignominiose per le sue istituzioni. Le due leggi rappresentano il midollo del tentativo di secessione. Il Parlamento vive giornate che distruggono la sua reputazione. Una semplice maggioranza parlamentare rade al suolo tutto il quadro giuridico vigente: lo Statuto e la Costituzione”;
2) la celebrazione del referendum del 1-O in violazione delle risoluzioni del Tribunal Constitucional che ne avevano decretato l’invalidità;
3) la dichiarazione unilaterale di indipendenza del 27-O cui non viene data effettività per l’applicazione inmediata dell’articolo 155 da parte del governo Rajoy con la conseguente sospensione di fatto dell’autonomia.

Il tentativo di secessione. Su questo verte il giudizio. Non esattamente un sogno per idealisti.

Ovviamente sarebbe ingenuo negare che il processo presenti una componente politica rilevante, vista la tipologia degli imputati e delle accuse. E certamente una delle principali linee di difesa, como si è visto già nella prima giornata del giudizio, sarà tentare di screditare il tribunale e il procedimento allegando il carattere persecutorio dei delitti di ribellione, sedizione e disobbedienza che il Pubblico Ministero e l’Avvocatura dello Stato hanno formalizzato. Decisiva ai fini delle sentenze sarà la valutazione da parte della corte del fattore violenza, che l’accusa sostiene aver riscontrato almeno in due circostanze nell’autunno caldo del 2017: la prima il 20 settembre quando migliaia di persone tentarono di impedire l’accesso della Guardia Civil agli uffici del dipartimento di Economia della Generalitat con conseguenti incidenti di piazza; la seconda il giorno del referendum, quando i seggi aprirono nonostante la proibizione e i manifestanti si contrapposero alle forze dell’ordine che volevano entrare in alcune sedi del voto. Seguirono cariche e scontri con diversi feriti. Senza violenza o tumulto pubblico non esistono i reati di ribellione e sedizione che prevedono le pene maggiori e tutto potrebbe risolversi in una condanna per disobbedienza secondo il principio del in dubio pro reo.

Ma al di là delle speculazioni, politiche saranno sicuramente le conseguenze del giudizio sia nelle relazioni interne a un movimento indipendentista già diviso, sia in quelle tra nazionalismo catalano e stato centrale. La ferita aperta dall’avventura secessionista, resa ancora più infetta dall’incapacità dei governi di Madrid di propiziare soluzioni politiche adeguate, sarà difficile da rimarginare in tempi brevi. L’indipendentismo si prepara per il post-processo, rifiuta di approvare la finanziaria di Sánchez e converte le sue rivendicazioni in una strategia del caos. Il presidente del governo annuncerà in questi giorni elezioni anticipate ad aprile.

Intanto il discorso vittimista fa presa su parte dell’opinione pubblica internazionale, complici la distanza, le semplificazioni inevitabili di certa stampa e soprattutto i consueti filtri ideologici.
L’attuale presidente della Generalitat, Quim Torra, in una recente intervista è tornato sul tema caro ai dirigenti indipendentisti catalani di una “democrazia al di sopra di qualunque legge e di qualunque imposizione”. Una presunta sovranità senza limiti, che non rispetta le regole del gioco e che fagocita qualsiasi tendenza contraria in nome dell’interesse supremo “del popolo”. Un concetto plebiscitario, quasi totalitario di democrazia senza legalità che il nazionalismo separatista – minoritario nella società – pretende di generalizzare per conseguire il suo obiettivo. Come questa deriva nazional-populista, dai marcati toni anti-capitalisti e anti-liberali, abbia potuto essere scambiata da molti anche in Italia come una romantica lotta per la libertà e l’autodeterminazione resta un enigma che forse solo il tempo aiuterà a risolvere. Ma questo è materiale per altri articoli.

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