Cultura

Bce vs Fed: l’eredità dello Stato assoluto nei poteri tecnocratici dell’Ue

Il confronto tra le due banche centrali mostra come nell’Europa continentale sopravvivano molti aspetti della cultura assolutistica del potere

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Uno degli aspetti che rende tanto affascinante lo studio della storia (ahimè materia sempre più negletta nei programmi scolastici e sempre meno conosciuta dai giovani) è la sua capacità di sorprendere chi si dedica a studiarla. La storia non è una ruspa, diceva un mio professore, non spazza via tutto il passato, ma è piuttosto una accumulatrice “selettiva”, che a volte elimina, e a volte conferma quanto una data epoca ha portato con sé, e soprattutto a volte mantiene determinate concezioni relative ai rapporti sociali e politici in maniera “sotterranea” quasi “nascondendole” sotto le apparenze contrarie.

Uno degli esempi, a mio giudizio, più lampanti e significativi è il permanere nei Paesi dell’Europa continentale, in molti ed importanti aspetti della vita politica e della gestione del potere pubblico, della mentalità tipica della monarchia assoluta che si insediò in Europa continentale nei secoli XVII e XVIII.

Intendiamoci, chi scrive non intende parlare di una entità metafisica, simile al “fascismo eterno” cui qualcuno fa riferimento, ma di una ben precisa e concreta continuità storica, cioè del fatto che nei Paesi del vecchio continente e nelle strutture dell’Unione europea esistono tuttora dei poteri pubblici che, come il sovrano assoluto di qualche secolo fa, non sono sindacabili riguardo alla modalità e alle conseguenze della loro azione.

I vincoli del sovrano medievale

Il potere del sovrano medievale, chiamato imperium, di decidere le cose che interessavano l’intera collettività (la guerra, la sicurezza interna, la realizzazione di strade, l’approvvigionamento in caso di carestie ecc.) era soggetto a tutta una serie di limiti, e anche se non possiamo definirlo democratico (qualcuno ha parlato di “democrazia gotica”) non era un potere assoluto.

Da un lato tale potere era soggetto al rispetto dei diritti individuali (diversi a seconda della posizione sociale) dei singoli e quindi al potere di iurisdictio che pur spettando al sovrano si contrapponeva al primo perché diversi erano i soggetti che lo gestivano (i giudici). Dall’altro, gli atti di imperium del sovrano, in particolare quelli che andavano a toccare le modalità di vita o il patrimonio dei sudditi dovevano essere basati su una qualche forma di consenso da parte di questi ultimi (cioè da parte dei grandi feudatari, degli ecclesiastici e dei rappresentanti delle comunità cittadine).

Tale consenso poteva riguardare gli scopi e soprattutto i mezzi finanziari, da ottenere tramite la tassazione, dell’atto. Da tutto ciò derivava anche la possibilità di una verifica successiva sull’operato del sovrano che poteva portare a sanzioni nei confronti dei funzionari che avevano agito e in casi particolarmente gravi poteva investire la stessa persona del monarca, anche se invero le contestazioni sull’uso del potere pubblico avvenivano in genere in maniera molto più materiale di quanto succede oggi.

L’eredità dell’assolutismo

Con l’assolutismo questi vincoli vengono meno: lentamente ma inesorabilmente i rappresentanti dei diversi “ceti” (nobili, ecclesiastici, borghesi) perdono i loro poteri che si concentrano nel monarca e le decisioni sovrane basate sul potere di imperium diventano se non arbitrarie, certo non più soggette né al consenso preventivo né alla verifica successiva.

Con il crollo dell’ancien regime e l’avvento della democrazia in senso moderno, si afferma anche negli stati di tradizione assolutistica il principio che chi gestisce il potere è un rappresentante del popolo che deve al popolo (non più all’investitura divina e/o al consenso dei rappresentanti dei ceti) il suo potere, ma la tendenza per tutto l’Ottocento è più quella di lasciare all’elettorato (ancora ristretto per motivi di sesso e di censo) il potere di decidere “chi” governa che non quella di consentirgli di sindacare “come” governa e “cosa” realizza nell’esercitare il suo potere di governare.

Questa concentrazione del consenso più sulle persone dei governanti che non sulla loro attività lasciava ovviamente scoperta la possibilità di un potere di tipo assoluto creato per via democratica, via che seguirono tutte le dittature (fascismo, nazionalsocialismo ecc.) che si insediarono nella prima parte del Novecento con le conseguenze che tutti conosciamo.

Possiamo dire che questa limitazione culturale del ruolo dell’elettorato fu una eredità culturale (inavvertita) dello stato assoluto. Ma, ci si può chiedere, proprio l’esperienza tragica delle dittature non ha fatto sì che anche nei Paesi europei continentali si sviluppassero appieno i principi propri del potere pubblico soggetto a consenso e a verifica da parte dei soggetti rappresentativi del popolo?

Questa è una realtà che (per fortuna) non si può negare, anche se in generale possiamo dire che (al di là delle affermazioni formali) di fatto nei Paesi europei continentali permane, a differenza di quelli anglosassoni dove il potere assoluto non ha mai preso piede, un attaccamento più forte e spesso decisivo alle figure dei candidati e soprattutto ai loro partiti di appartenenza. L’eredità sotterranea dello stato assoluto ha preso però in Europa una via nuova, per molti aspetti imprevista (anche l’imprevedibilità è una cosa che rende la storia affasciante).

La deriva tecnocratica

Tipica della realtà attuale, propria dei Paesi europei continentali, è infatti la sottrazione alla politica di tutta una serie sempre più estesa di attività che vengono inserite in un ambito “tecnico” del potere pubblico ed affidate a persone e/o a strutture ritenute particolarmente competenti a gestirle e non soggette al controllo da parte degli organi rappresentativi dell’elettorato.

Ciò in base ad una mentalità portata a squalificare la politica tradizionale e ad affidarsi agli “esperti” (o presunti tali), in base a concezioni che considerano la attività umane (ad esempio quelle economiche) come applicazioni quasi meccaniche di una realtà conoscibile in anticipo e definita con una serie di dogmi (l’infallibilità del mercato, l’uomo come “homo oeconomicus” ecc.).

Non così nei Paesi anglosassoni dove le stesse attività sono invece gestite sotto il controllo e la direzione degli organi di governo, a loro volta responsabili verso l’elettorato del modo in cui tali attività sono esercitate e dei risultati delle stesse.

Anche nella tecnicizzazione di molte attività, nella creazione cioè di un potere tecnocratico possiamo riscontrare una eredità dello stato assoluto e ciò è confermato dal fatto che le stesse rimangono (pur con molte particolarità) nell’ambito classico della politica nei sistemi anglosassoni che l’assolutismo non lo hanno mai conosciuto.

Questo non comporta solo una diminuzione del ruolo della democrazia, ma di fatto, spesso (o quasi sempre) determina un esito decisamente negativo di tale impostazione, dato che la “performance” delle strutture e dei soggetti tecnici si dimostra in genere inferiore a quella propria dei sistemi a controllo politico classico. Del resto è evidente che (al di là delle situazioni personali) un soggetto non sottoposto a controllo tende a debordare dalle sue funzioni ed è molto più facile che sbagli e non corregga i suoi errori rispetto a chi è controllato ed è chiamato a rispondere del suo operato.

La “irresponsabile” Bce

L’esempio forse più calzante di questa realtà è rappresentato dall’organo competente a gestire la politica monetaria degli Stati europei aderenti all’euro, rappresentato dalla Banca centrale europea (Bce): un confronto con l’analoga (anche se molto diversa) struttura americana la U.S. Federal Reserve (Fed) è in tal senso illuminante e ci dimostra come, sotto la veste esteriore del potere tecnocratico, in Europa un settore importante quale quello della politica monetaria segua tuttora logiche non dissimili da quelle proprie del potere assoluto, essendo svincolato nelle sue premesse e nei suoi risultati da ogni controllo politico.

E ciò in nome della “indipendenza” della Bce, temine che, considerando l’altro lato della medaglia può essere considerato come equivalente a “insindacabilità”, “irresponsabilità” (cioè non responsabilità) della stessa di fronte agli organi rappresentativi dell’elettorato.

Ad esempio, nelle scorse settimane si è discusso sulla decisione della Bce di elevare i tassi di interesse (o comunque di non abbassarli) nonostante le difficoltà economiche dei diversi Paesi (compreso, nonostante impostazioni eccessivamente ottimiste il nostro). In tal senso però non si può che dire che la Banca ha agito nel pieno rispetto del suo statuto: l’unico obiettivo, la “mission” della Bce consiste infatti nel combattere e prevenire l’inflazione.

Se ciò porta ad una crisi economica e ad un aumento della disoccupazione non è cosa che interessi dal punto di vista dei suoi doveri d’ufficio alla banca europea; e le sue scelte non sono comunque sindacabili né dagli organi dell’Unione né dai Parlamenti nazionali. Una cosa analoga del resto si è verificata nel decennio seguito alla crisi economica del 2008, dove non c’è stata inflazione, ma al contrario, si è verificata una situazione di deflazione che unitamente agli squilibri causati dall’euro ha determinato un impoverimento generalizzato dei Paesi aderenti alla moneta unica, soprattutto dei Paesi mediterranei (compreso il nostro).

Questa situazione di recessione prolungata è stata secondo molti causata anche della politica della Bce sui tassi di interesse (a chi volesse approfondire segnalo il “monumentale” libro, tradotto anche italiano, dell’economista indiano Ashoka Mody “La tragedia dell’euro”, del 2018).

L’approccio empirico della Fed

Negli Stati Uniti, dove la politica della Fed ha invece intrapreso la strada del taglio dei tassi, la crisi è stata combattuta e superata in maniera decisamente migliore e con minori conseguenze negative per la popolazione. Questo anche perché la Fed è stata sollecitata in tal senso dal governo americano al quale la stessa deve rispondere (e il governo a sua volta rappresentato in quel sistema soprattutto dal Presidente, ne risponde all’elettorato).

E soprattutto perché la stessa Fed in base al suo statuto è tenuta non solo a limitare l’inflazione, ma anche a favorire la massima occupazione possibile, un obiettivo sociale, che potrebbe meravigliare coloro che giudicano gli Stati Uniti come la terra del “capitalismo selvaggio”, ma che è in piena linea con una concezione empirica e non dogmatica del mercato e del potere pubblico. Considerazioni analoghe si potrebbero fare per il ruolo e il modo di agire della Banca di Inghilterra nel Regno Unito.

Conclusioni

Chi scrive si rende conto che quelle che precedono sono considerazioni teoriche, e che anche se forse sarebbero condivise da molti, non sono politicamente proponibili in concreto: quale partito si azzarderebbe mai a lanciare l’idea di una riforma della Bce (ma il discorso vale per tutte le strutture tecnocratiche, europee e nazionali) che prevedesse una qualche forma di responsabilità della stessa verso i governi nazionali democraticamente eletti o verso altre strutture dell’Unione in qualche modo rappresentative degli elettori?

Sarebbe considerata una lesione inaccettabile della “indipendenza” della struttura bancaria fondata nel carattere “tecnico” del suo compito. Non rimane altro che accettare un modo di concepire e di gestire il potere pubblico, che del resto riguarda non solo la Bce, ma tutti gli organi “tecnici”, che a mio parere non ha dato buona prova di sé, e “consolarci” con l’analisi delle affascinanti continuità storiche, come il permanere di molti aspetti della cultura assolutistica del potere nell’Europa continentale.

Un’analisi che forse aiuta almeno a capire perché certe realtà sono così radicate nei nostri sistemi politici e così difficili da modificare.

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