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Dal Libano all’Iraq, qualcosa si muove in Medio Oriente dopo gli Accordi di Abramo voluti da Trump

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Seguendo le analisi geopolitiche dell’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema, non c’è dubbio che si arrivi a pensare tutto il male possibile degli Accordi di Abramo, ovvero dell’accordo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Israele e Emirati Arabi Uniti, a cui si è aggiunto il Bahrain e presto si aggiungeranno altri Paesi arabi/musulmani.

Peccato che la lettura di D’Alema sia ormai datata (lo era già all’epoca del suo governo…), l’ottica “palestinocentrica” con la quale guardare alle relazioni internazionali del Vicino Oriente è stata smentita dai fatti.

Come abbiamo già rilevato su Atlantico Quotidiano, gli Accordi di Abramo – voluti dal presidente Trump – hanno innescato una radicale revisione della geopolitica mediorientale, che ha permesso non solo la normalizzazione delle relazioni tra Gerusalemme-Abu Dhabi e Manama, ma anche l’accordo di libero sorvolo dei cieli da parte degli aerei israeliani permesso dall’Arabia Saudita, l’accordo tra le aviazioni civili di Giordania e Israele per aumentare la collaborazione e ridurre di ore il tragitto degli aerei civili e l’avvio dei negoziati sui confini marittimi tra Israele e Libano (de facto, quindi, Beirut ha riconosciuto il diritto di Israele ad esistere, nonostante lo stato di guerra ufficiale tra i due Paesi e nonostante Hezbollah…).

La questione però non si esaurisce qui. Come noto uno dei primi Paesi che potrebbero aggiungersi nel riconoscere Israele è il Sudan. La cosa ha dell’incredibile, soprattutto se si pensa che Khartum è stato il centro dei “tre no” a Israele (“no al riconoscimento di Israele, no alla pace con Israele e no ai negoziati con Israele”, correva l’anno 1967) e soprattutto il Paese che per antonomasia ha difeso il peggior terrorismo islamista, ospitando sul suo territorio per anni il terrorista e fondatore di al-Qaeda Osama Bin Laden.

Ancora più clamoroso è che, dopo la firma degli Accordi di Abramo, di riconoscimento di Israele si stia parlando in Iraq. Si badi bene, non nell’Iraq sunnita e curdo, ma nell’Iraq sciita e un tempo totalmente filo iraniano. A proporre qualche giorno fa di normalizzare le relazioni diplomatiche tra Baghdad e Gerusalemme è stato infatti Bahaa Al-Araji, già portavoce del Movimento Sadrista ed ex vice primo ministro iracheno tra il 2014 e il 2015, quando premier era al-Abadi, un fedelissimo di Tehran. Sorprendente è che questo politico iracheno fedele a Muqtada al-Sadr ha sostenuto la sua proposta in una intervista tv sul canale locale fondato dall’Iran. Non solo, ha anche affermato che la proposta di normalizzare le relazioni con Israele, potrebbe arrivare non da Baghdad, ma dal governatorato di Najaf, ovvero dal cuore pulsante dello sciismo iracheno.

Neanche a dirlo, poco dopo l’intervista, Bahaa al-Araji è stato minacciato da altri rappresentanti del Movimento Sadrista, nettamente contrari alla sua proposta. Intanto però la proposta è stata avanzata e questo, di per sé, rappresenta un passo storico. Soprattutto se si aggiunge che, intervistato sul tema, il premier iracheno al-Khadimi ha rifiutato di commentare l’ipotesi di una normalizzazione delle relazioni diplomatiche tra Emirati e Israele, giudicandola un affare interno di Abu Dhabi (commento che non sarà stato gradito a Teheran).

A quanto pare, sembra che l’idea di normalizzare le relazioni diplomatiche tra Israele e Iraq sia qualcosa più che un mero ballon d’essai di qualche leader iracheno coraggioso. Secondo il politico iracheno sunnita Mithal al-Alusi, infatti, una delegazione irachena sarebbe in viaggio in Europa e il suo tour includerebbe Parigi, Berlino e Londra. Nella capitale inglese, secondo al-Alusi, sarebbero previsti degli incontri formali e informali per discutere proprio della normalizzazione delle relazioni tra Baghdad e Gerusalemme.

Non è dato sapere se quello che al-Alusi ha detto sia vero o meno, ma è certo che si tratta di una persona che ha pagato carissimo sulla propria pelle il suo coraggio politico. Dopo aver passato una vita in esilio per aver combattuto Saddam Hussein, al-Alusi è finito davanti ad una corte irachena per aver deciso volontariamente di visitare Israele nel 2004. Nel 2005, quindi, la macchina di al-Alusi è stata oggetto di una imboscata in cui sono stati uccisi i suoi due figli, Ayman e Jamal, di appena 29 e 24 anni. Ad organizzare l’attentato furono i miliziani comandati da Asaad al-Hashimi, all’epoca ministro della cultura iracheno. Per tutta risposta, nel 2008, al-Alusi decise di recarsi ancora una volta in Israele, affermando che lo Stato ebraico era un presidio di libertà e che il vero nemico dell’Iraq era l’Iran.

Per la cronaca, nella delegazione inviata dal premier al-Khadimi in Europa, a quanto pare, ci sarebbe anche il capo della Banca Centrale irachena Mustafa Ghaleb Mukhaif. Il suo ruolo sarebbe quello di convincere gli investitori che l’Iraq è un Paese affidabile a livello finanziario. Esattamente il contrario dell’Iran, da anni ormai nella lista nera del Financial Action Task Force (FATF), per la corruzione endemica del suo sistema finanziario e per il riciclaggio di denaro a fini terroristici.

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