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L’alba di un nuovo ordine in Medio Oriente. Trump ha mostrato che un’altra via è possibile, palestinesi senza più alibi

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Per comprendere gli Accordi di Abramo firmati a Washington il 15 settembre 2020 non bisogna partire dalla presidenza Trump, ma da quella di Barack Obama. È stato il presidente Obama a creare l’environment che poi, abilmente Trump ha sfruttato per arrivare all’accordo tra Israele e il mondo arabo sunnita moderato del Golfo.

Ma si badi bene: non è un certo complimento all’ex presidente Usa. Infatti, il contesto lasciato dall’amministrazione Obama è il risultato del fallimento della sua strategia in Medio Oriente, ma ha permesso ad una parte importante del mondo arabo – quella che nel 2002 aveva promosso la proposta di pace della Lega Araba – di comprendere definitivamente che Israele non è il vero nemico e che la questione palestinese non poteva più essere una conditio sine qua non per firmare un accordo con lo Stato ebraico.

Cosa voleva Obama? È presto detto: 1) un equilibrio del terrore in cui l’Iran fosse praticamente alla pari di Israele, bloccando soltanto parzialmente il programma nucleare di Teheran; 2) un nuovo equilibrio nel mondo sunnita, che de facto abbandonava a loro stesse le vecchie monarchie regnanti, considerate ormai quasi prive di legittimità. Nei fatti, la politica obamiana si è tradotta, stringendo al massimo, nel garantire libertà di movimento agli iraniani in tutto il Medio Oriente e nel garantire il sostegno dell’amministrazione Usa alla Fratellanza Musulmana, perché considerata erroneamente rappresentante delle istanze sociali dell’Islam (con buona pace dei diritti civili, dei diritti delle donne e delle minoranze sessuali). Insomma, come direbbero a Napoli “nu papocchio”.

Purtroppo per Obama, le forze politiche e le monarchie sunnite moderate del Golfo, che lui tanto disistimava, sono riuscite a tenere il timone, reagendo a quella che percepivano come una diretta minaccia alla loro esistenza. Sono riuscite a bloccare l’espansione dell’islamismo in Paesi come l’Egitto e hanno direttamente reagito alla minaccia iraniana in aree calde come il Libano, dove Hezbollah ormai la faceva da padrone. Se il Libano è fallito, non è solo perché è fallito il suo patto nazionale o perché è fallito l’ancoraggio al dollaro voluto da Rafiq Hariri, ma soprattutto perché le monarchie del Golfo – Arabia Saudita su tutte – hanno disinvestito da Beirut e le rimesse dei libanesi che vivono a Riad e Abu Dhabi sono venute meno. Una reazione costante e silenziosa al potere sciita khomeinista, che di fatto si è rivelata vincente (la crisi del Libano, ricordiamolo, non nasce con le esplosioni di Beirut, ma ben prima).

Ora veniamo a Trump. Il “cialtrone in chief” Trump, come qualcuno ama definirlo, ha proseguito sulla strada del disimpegno americano dal Medio Oriente, che va avanti da decenni e che era avanzato anche con Obama. Trump però, ha ribaltato il paradigma: ritiro sì, ma ricostruendo le alleanze tradizionali americane in quella regione e rimettendo al suo posto la reale minaccia all’instabilità di quell’area, ovvero l’Iran. In quattro anni, il regime iraniano è stato schiacciato economicamente, con una strategia che – nonostante il mega accordo tra Teheran e Pechino – sta costringendo anche la Cina a condizionare i suoi legami con la Repubblica Islamica in base ad alcuni limiti di rule of law (come per esempio la riforma del settore bancario iraniano richiesta da anni dal Financial Action Task Force).

La ricostruzione delle alleanze tradizionali americane, quindi, doveva andare di pari passo con la responsabilizzazione degli attori locali (così come Trump sta chiedendo ai partner Nato di avere un ruolo più attivo nella gestione delle spese e degli oneri dell’Alleanza Atlantica). Ovviamente, questa responsabilizzazione passava direttamente per un accordo geopolitico che fosse in grado di mettere insieme l’attore regionale più forte, Israele, con gli alleati sunniti moderati dell’Occidente, Arabia Saudita in testa, aumentando la sicurezza di tutti. Probabilmente, lo stesso Trump quando ha presentato “l’accordo del secolo” fra israeliani e palestinesi, sapeva già che l’annessione della Valle del Giordano sarebbe stata la buona scusa per normalizzare le relazioni diplomatiche tra lo Stato ebraico e alcuni Paesi del Golfo, mostrando come la questione palestinese restasse comunque dentro l’accordo (ovviamente i palestinesi hanno espresso il loro ennesimo rifiuto, ma ormai a questo ci siamo tutti abituati).

Così, pur condividendo con Obama la tendenza al progressivo disimpegno americano dal Medio Oriente, ma ribaltando la sua fallimentare strategia, che ha prodotto solo destabilizzazione, Trump è riuscito in una impresa storica, che promette di cambiare per sempre il volto del Medio Oriente. È forse l’alba di un nuovo ordine geopolitico regionale che, per l’appunto, ha nell’islamismo politico, di matrice sia sciita che sunnita, il nemico da combattere.

Se vogliamo, storicamente parlando, il Medio Oriente di oggi ha tradito Ben Gurion, per ritornare ai tempi di Feisal e Weizmann. Ben Gurion sognava una normale alleanza geopolitica tra Israele e i Paesi non arabi, Iran e Turchia in testa. Così è stato dall’inizio della Guerra Fredda, fino a quando è stato valido il Patto di Baghdad (1955). Ma le cose poi sono cambiate, prima con la rivoluzione iraniana del 1979 e poi con l’arrivo al potere di Erdogan ad Ankara. Così, il mondo ebraico è tornato a quell’intesa del 1919 tra l’allora presidente dell’Organizzazione mondiale sionista Weizmann, poi primo presidente di Israele, e il figlio di Hussein lo Sceriffo della Mecca. Un accordo in cui gli arabi, alleati degli inglesi, si dicevano favorevoli alla Dichiarazione Balfour e al progetto sionista in Palestina. Agli inglesi, oggi basta sostituire gli americani e il gioco, brutalizzando al massimo il paragone, è fatto.

Si badi bene: pensare che quello tra Israele e il mondo arabo sunnita sia un accordo solo contro l’Iran sarebbe una banalizzazione di qualcosa di enormemente più grande. Come già scritto, in ballo c’è la costruzione di un nuovo Medio Oriente e un dialogo stretto fra mondo ebraico e mondo sunnita moderato. Una partnership strategica, che passa per accordi finanziari, nel settore dell’edilizia, nel settore della scienza e dell’hi-tech e nel settore commerciale. Israele, da anni, aveva rilanciato il progetto del “railway for peace”, una grande linea ferroviaria che intende collegare il porto di Haifa con l’Arabia Saudita, passando per la Giordania. Oggi, guarda caso, nel porto di Haifa, vogliono investire direttamente gli emiratini (il quotidiano Haaretz parla di un prossimo accordo tra la società israeliana Israel Shipard e l’emiratina DC World). Il volume di scambi calcolato annualmente tra Israele e gli Emirati potrebbe raggiungere la cifra di 4 miliardi di dollari l’anno, mentre da Manama si dicono disposti ad investire nelle infrastrutture israeliane per un valore di almeno 500 milioni di dollari.

Come ha poi detto Trump, altri Paesi seguiranno (si parla di Marocco, Sudan, Oman e ovviamente Arabia Saudita). Per quanto concerne Riad, non sappiamo quando farà il passo finale verso la normalizzazione, ma è chiaro a tutti che il Bahrein è stato mandato avanti in questa partita con la piena benedizione di Mohammed Bin Salman. I sauditi potrebbero, come pare voler fare il Marocco, avviare prima voli diretti con Israele, per poi normalizzare le relazioni diplomatiche.

La mossa, dal punto di vista geopolitico, va quindi vista anche in chiave anti-turca. In questo caso, se guardiamo a quello che sta succedendo nel Mediterraneo orientale, l’Accordo di Abramo si potrebbe tranquillamente allungare verso la Grecia e Cipro, con la Francia primo Paese europeo disposto a benedirlo, al fine di contrastare l’attivismo di Erdogan e difendere gli interessi militari ed energetici di Parigi.

L’Italia, in questo contesto, potrebbe certamente giocare la sua partita, a patto che decida finalmente da che parte stare. Per ora, Roma gioca nel mezzo, consapevole di essere finita nella trappola di Erdogan, ma anche incapace di liberarsene in maniera netta. Quanto questa doppio gioco potrà durare, non è dato saperlo. Resta il fatto che in Italia potrebbe arrivare il gasdotto Eastmed, che permetterebbe all’Ue di diversificare i suoi approvvigionamenti di gas, soprattutto dalla Russia. Eastmed ad alcuni pare non conveniente economicamente, ma va considerato come un progetto geopolitico strategico, che tra l’altro potrebbe tranquillamente essere rivisto per congiungersi nella parte finale con il TAP proveniente dall’Azerbaijan.

Infine, due parole sui vertici europei: vergognosa la loro assenza alla firma a Washington dell’Accordo di Abramo. Un’assenza figlia dell’ideologia di Oslo, quella che vedeva solo nella questione palestinese la via per risolvere i problemi del Medio Oriente. Una lettura “dalemiana” delle relazioni internazionali, che si è sempre rivelata filosoficamente affascinante, ma praticamente fallimentare. Pochi ricordando, in questo senso, che il conflitto israelo-palestinese, prima di essere tale, è stato arabo-israeliano. L’Europa quindi può scegliere: o segue la via tracciata da chi ha capito che, falliti gli accordi di Sykes–Pikot, è tempo di ricostruire un ordine regionale fondato sulla pace e la convivenza pacifica, o resterà prigioniera della Dichiarazione di Venezia del 1980, quella con cui gli europei riconobbero l’Olp, ma che nei fatti ha reso la diplomazia del Vecchio Continente una macchina burocratica che ormai si è totalmente inceppata.

Come direbbe Vasco Rossi, “qui si fa la storia!”. Chi sarà in grado di salire su questo treno ora ne godrà i frutti, chi se lo lascerà scappare ne pagherà le conseguenze per decenni. Nella seconda categoria, quella che perde costantemente i treni, fino ad oggi ci sono stati i palestinesi…

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